Culture Mapping. Una Lente per Mappare il Visibile e l’Invisibile della Cultura Organizzativa
articolo su HBR Italia a cura di Martina Cecchini, Marta Coser, Giulia Bussi
Nel raccontare il nostro approccio alla mappatura della cultura organizzativa, il discorso inizia sempre allo stesso modo: diceva Peter Drucker – “Culture eats strategy for breakfast!” (la cultura si mangia la strategia a colazione). Chi ci ascolta annuisce, e noi siamo sollevati di poter agganciare la nostra metodologia a un pezzo di conoscenza condivisa, un concetto letto e riletto tra le pagine del management e della psicologia delle organizzazioni. Eppure…
Eppure Peter Drucker non ha mai detto quella frase, che gli è stata attribuita come apocrifa e negli anni si è solidificata come un dato di fatto. A poco valgono gli sforzi della pagina web “Did Peter Drucker Say That?” imbastita dal Drucker Institute, che cerca di sfatare molti dei miti che circolano sulle affermazioni dell’economista. Quando un pezzo di informazione, una pratica condivisa o una credenza si innestano nella cultura di un gruppo sociale e rispondono (in maniera più o meno funzionale) ai bisogni dei suoi membri, non bastano né la comunicazione, né l’educazione e neppure la tecnologia da sole a cambiarle.
Allo stesso modo, una nuova strategia organizzativa (ad esempio, un nuovo modello di servizio o un investimento tecnologico di rilievo) rischia di restare sulla scrivania del board quando non c’è una roadmap e una metodologia chiara per innestarla nella cultura dell’organizzazione.
L’obiettivo fondamentale dei nostri interventi di mappatura e rigenerazione della cultura organizzativa guidati dalle scienze comportamentali è proprio questo: non tanto sostituire la cultura esistente, dando adito all’idea – a nostro avviso fuorviante – che elementi della cultura organizzativa vadano scartati o dismessi a favore di un to-be ideale (vedi figura).
Piuttosto, ripensare, valorizzare e trasmutare:
- Ripensare significa individuare elementi della cultura organizzativa già allineati con la nuova strategia, e utilizzarli come leva per accelerare la rigenerazione, oppure potenziare le capacità decisionali delle persone, semplificando le scelte più complesse. Ad esempio, attivando meccanismi di condivisione e modellamento di buone pratiche, o attraverso la progettazione di euristiche smart a supporto delle decisioni (vedi articolo Decisioni Smart).
- Valorizzare significa attivare risorse e capacità esistenti ma sopite nell’organizzazione e ricombinare fattori esistenti in forme nuove e più funzionali. Ad esempio, individuando early adopters e trendsetters (Bicchieri, 2016), e attivandoli affinché possano diffondere il cambiamento nella loro rete sociale.
- Trasmutare significa riconoscere gli obiettivi e i bisogni individuali e i sistemi di incentivi che stanno alla base di decisioni e comportamenti non desiderabili, e supportare le persone affinché possano soddisfare i loro bisogni attraverso modalità più coerenti con la nuova strategia. Ad esempio, individuando barriere e abilitatori al cambiamento nel loro contesto sociale e ambientale, e lavorando in sinergia con varie funzioni organizzative per agire su di essi.
Tuttavia, il primo passo per ripensare, valorizzare e trasmutare è sempre lo stesso: mappare la cultura organizzativa esistente, misurandone quantitativamente e qualitativamente gli elementi fondanti, e descrivendo statisticamente le relazioni complesse tra questi elementi.
Potrà la nuova strategia attecchire nella nostra organizzazione? Quanto è compatibile con le regole scritte e non scritte che caratterizzano il nostro sistema sociale interno? Come facciamo a individuare o, meglio ancora, misurare tale compatibilità? E ancora, se le regole dell’organizzazione non fossero più funzionali al raggiungimento dei risultati, è possibile modificarle?
Queste alcune delle domande che ci rivolgono i nostri clienti, e rispondervi ci consente di individuare i meccanismi di trasmissione principali del cambiamento, e le leve che possono accelerare piccoli cambiamenti in grandi impatti.
CULTURE MAPPING: UNA LENTE PER MAPPARE IL VISIBILE E L’INVISIBILE DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA
Il concetto di cultura organizzativa è ancora al centro di un intenso dibattito, sia nel business che nella letteratura scientifica. Una delle prime e più longeve definizioni è quella di Schein (1984), che definisce la cultura organizzativa come un sistema di assunzioni (ovvero credenze e schemi per la lettura della realtà) che informano il modo in cui i membri della comunità organizzativa percepiscono e interpretano il proprio contesto.
Più comunemente, la cultura organizzativa può essere intesa come “il modo corretto in cui le cose andrebbero fatte e i problemi andrebbero compresi e interpretati nell’organizzazione” (Sun, 2008). Mappare e interpretare questo sistema di credenze condivise non è impresa semplice, in quanto comprende elementi osservabili e non; fattori percettivi e artefatti oggettivi; caratteristiche individuali e fenomeni collettivi e relazionali.
Il nostro modello di culture mapping ci viene in aiuto, fornendoci una lente per la misurazione, lettura e interpretazione sistematica di questi fattori. Il modello si basa sulla classica struttura a tre livelli rappresentata da Edgar Schein (vedi Somers, 2023, per una lettura contemporanea del modello), integrata dalle più recenti intuizioni delle scienze comportamentali sulle determinanti individuali, sociali e ambientali dei comportamenti.
In particolare, per mappare la cultura organizzativa, ci concentriamo su tre livelli principali di analisi (vedi figura): il primo sono i fenomeni visibili attraverso cui la comunità organizzativa si manifesta, ovvero i comportamenti e il linguaggio utilizzato dai suoi membri; le tecnologie e i processi che ne garantiscono il funzionamento; e le caratteristiche degli spazi fisici e virtuali in cui si svolge la vita organizzativa.
Il secondo livello sono gli aspetti dichiarati dall’organizzazione e dai suoi membri. Questi elementi, pur non essendo direttamente osservabili, sono parte del bagaglio di attitudini e convinzioni consapevoli dei suoi membri. Di questo livello fanno parte sia aspetti prettamente individuali, che non dipendono quindi da ciò che dicono o fanno gli altri, che elementi collettivi e interdipendenti come le norme e i valori condivisi.
Infine, il terzo livello sono gli aspetti inconsci che guidano le attitudini, convinzioni e comportamenti dichiarati dai membri della comunità organizzativa. Questo livello comprende le assunzioni e le aspettative su sé stessi, sugli altri e sul mondo che ci circonda, e i bias che possono risultare in comportamenti sistematicamente disfunzionali. Un po’ come le molecole e atomi alla base della realtà visibile, questo è l’ambito più difficile da misurare e mappare, in quanto non è direttamente osservabile nella vita dell’organizzazione e non corrisponde necessariamente al dichiarato dei suoi membri. Eppure, comprendere e intervenire su questo livello, rendendo visibile l’invisibile e conscio l’inconscio, è fondamentale per un cambiamento culturale sostenibile e di lungo periodo.
IL POTERE DI UN APPROCCIO QUALI-QUANTITATIVO ALLA MAPPATURA
Come già accennato, gli aspetti visibili della cultura – il primo livello del nostro modello – sono i più semplici da misurare e mappare, in quanto spesso possiamo ricostruirne le tracce nelle fonti dati già presenti nell’organizzazione. Ad esempio, nei dataset delle piattaforme per la gestione dell’employee experience, o nei flussi di informazione generati dalle funzioni operative dell’organizzazione. Questi dati si prestano a letture prevalentemente descrittive, che ci restituiscono fotografie statiche o dinamiche (ovvero nel corso del tempo) dell’as-is dell’organizzazione.
Il secondo livello è l’ambito delle convinzioni e attitudini consapevoli. Queste possono essere elicitati tramite varie tipologie di raccolta attiva di dati (ad esempio questionari, interviste o focus group), o inferiti attraverso un’analisi approfondita di come l’organizzazione si racconta e si rappresenta internamente ed esternamente.
Al contrario, per raccogliere evidenze sul terzo livello del nostro modello – quello delle assunzioni e bias inconsci – non basta osservare il comportamento delle persone, o chiedere loro direttamente cosa pensano o sentono. Qui ci vengono in aiuto metodologie di analisi statistica per esplorare e modellare le relazioni complesse tra le variabili in gioco, approcci sperimentali per rivelare i meccanismi inconsci che guidano il comportamento, oppure processi di coaching “maieutico” per accompagnare individui e gruppi in un percorso di autoconsapevolezza.
Le possibili combinazioni di queste metodologie e approcci sono molteplici, e dipendono dagli obiettivi del progetto, dalle caratteristiche del contesto organizzativo e dalle funzioni e stakeholder coinvolti. Tuttavia, due principi fondamentali guidano tutti i nostri interventi di mappatura della cultura: il primo è che, per mappare efficacemente la cultura, è necessario utilizzare un approccio mixed-methods (a metodi misti), che combina metodologie qualitative e quantitative per la raccolta e l’analisi dei dati. Ad esempio, individuando una serie di credenze disfunzionali attraverso la conduzione di focus group, per poi misurare quantitativamente la loro distribuzione nelle varie popolazioni organizzative.
Il secondo principio è l’importanza di una lettura e interpretazione partecipata dei risultati delle analisi con i principali stakeholder. Questo step, oltre a supportare l’analista in un’interpretazione maggiormente contestualizzata e consapevole dei risultati emersi dai dati, risponde ad alcuni meta-obiettivi fondamentali dei nostri progetti di change management, ovvero:
- Coltivare e diffondere una buona cultura del dato a tutti i livelli dell’organizzazione – un insieme di capacità e mindset sempre più fondamentali per organizzazioni e progetti impact-driven;
- Preservare il senso di agency (agentività) delle persone, affinché non subiscano passivamente il cambiamento ma ne siano protagoniste e promotrici.
LA “GRAMMATICA DELLE ORGANIZZAZIONI”: NORME SOCIALI PER DECIFRARE LA CULTURA ORGANIZZATIVA
Uno dei costrutti più complessi (ma essenziali) da misurare nel processo di mappatura della cultura organizzativa sono le norme sociali. Queste sono regole implicite e non scritte, che indicano il comportamento più diffuso e/o considerato il più socialmente accettabile in una comunità o gruppo sociale.
Per diagnosticare la presenza di una norma sociale serve infatti stabilire se c’è consenso, in un certo gruppo, sulle azioni che sono appropriate o inappropriate in una specifica situazione, e se tale convinzione sociale influenza effettivamente il processo decisionale delle persone, cioè la loro preferenza ad agire in un certo modo. Cristina Bicchieri le definisce come “la grammatica della società” (Bicchieri, 2005). Infatti, un po’ come le regole di grammatica, infrangere una norma sociale non provoca una sanzione formale, ma solo conseguenze sociali negative come la disapprovazione. E come la grammatica e il linguaggio, le norme sociali possono cambiare nel tempo in risposta a trasformazioni culturali o cambiamenti nelle caratteristiche di una comunità o dell’ambiente in cui si trova.
Per questo, il contenuto e la distribuzione delle norme sociali rappresentano una cartina di tornasole fondamentale per mappare le regole di funzionamento di un sistema sociale, e quindi decifrare la cultura organizzativa. Ma non solo: misurare le norme sociali non è solo fondamentale per interpretare la cultura organizzativa esistente, ma anche per attivare il processo di cambiamento.
Dato che le norme sociali rappresentano i binari all’interno dei quali il cambiamento comportamentale può avvenire, se i nuovi comportamenti desiderati non sono compatibili con le norme sociali esistenti, e se non si avvia un processo di evoluzione delle norme rispettoso dei valori condivisi dell’organizzazione, il processo di change rischia concretamente di fallire. Nell’intervista allegata a questo articolo, abbiamo approfondito con Cristina Bicchieri il ruolo delle norme sociali nei processi di cambiamento organizzativo, e i principi che guidano l’utilizzo di interventi di norm-nudging per la promozione di nuovi comportamenti.
LA PEOPLECOLOGY A SERVIZIO DEL CAMBIAMENTO NELLA CULTURA ORGANIZZATIVA
Quando parliamo di cambiamento nelle organizzazioni, ci troviamo di fronte a tipici problemi di azione collettiva, ovvero legati alle modalità con cui gruppi di persone – ognuno dei quali è portatore di una serie di aspettative, preferenze, incentivi e capacità di azione – gestiscono un bagaglio comune di risorse limitate, allo scopo di trasformare efficacemente input in output e garantire la continuità di questi processi nel tempo.
Nell’affrontare e cercare soluzioni nuove per rispondere a questi problemi, spesso ci troviamo davanti ai classici dilemmi della vita in comune: il comportamento che massimizza il benessere della singola persona non è necessariamente quello che, unito ai comportamenti altrui, massimizza il benessere dell’organizzazione nel suo complesso. Ad esempio, attivare processi di collaborazione cross-funzionale, condividendo dati e informazioni con altri team, potrebbe risultare indigesto al singolo individuo che voglia preservare i propri interessi particolari. Tuttavia, attivare tali processi virtuosi può aprire nuovi spazi di opportunità che, in ultimo, portano vantaggi a tutti.
Possiamo quindi osservare come i problemi di gestione e valorizzazione delle risorse organizzative abbiano caratteristiche molto simili ai problemi di gestione delle risorse naturali, in quanto entrambi implicano un certo livello di conflitto (di difficile risoluzione) tra interessi particolari e collettivi.
Per rispondere è necessario adottare un approccio più ecologico al change management, che guarda alle relazioni complesse tra individui e il loro contesto, sia sociale che ambientale, e approfondisce i meccanismi attraverso i quali piccoli cambiamenti in questo insieme di relazioni si traducono in impatti sistemici e di lungo periodo; in ultimo preserva gli ambiti di azione delle persone all’interno di queste trasformazioni, attivando processi partecipativi che possano autosostenersi e camminare con le proprie gambe anche quando la consulenza si fa da parte.
La lente olistica attraverso cui il nostro modello di culture mapping ci permette di leggere e interpretare la cultura organizzativa fa proprio questo, attivando nuovi canali di autoconsapevolezza, dialogo e valorizzazione delle risorse in partnership con i principali stakeholder. Creare le condizioni perché le persone condividano le ragioni per cambiare inizia proprio dal favorire un confronto diretto e franco su pratiche in uso, attraverso l’interpretazione e discussione partecipata dei dati e delle informazioni a disposizione, all’interno del proprio network di riferimento.
Questo consente di conoscere le vere convinzioni e preferenze degli altri, svelando comportamenti ripetuti per abitudine, anziché perché “ci crediamo”, e dunque più facili da modificare se riconosciuti poco funzionali per i risultati comuni, ma anche di confrontarsi sui dilemmi che nascono dal conflitto tra norme diverse.
Il risultato sono ecosistemi di intervento consulenziale che includono elementi sociali, ambientali e tecnologici, radicati nella letteratura scientifica e coerenti con il contesto organizzativo. Questi restituiscono alle imprese il ruolo di agenti protagonisti del cambiamento, in modo che – in continuità con la propria storia ed evolvendo in un mondo in continua trasformazione – possano contribuire fattivamente agli obiettivi globali di sviluppo sostenibile.
L’APPLICAZIONE SUL CAMPO DEL MODELLO DI CULTURE MAPPING
Nel 2023 MIDA, in collaborazione con una delle principali Società di Gestione del Risparmio italiane, ha avviato un progetto dedicato allo sviluppo dei gestori finanziari di due istituti bancari italiani fortemente radicati nel territorio del mezzogiorno. Obiettivo dell’intervento: progettare insieme, diffondere e adottare comportamenti e rituali commerciali funzionali agli obiettivi di sviluppo del risparmio gestito.
Inoltre, in un Paese come l’Italia, dove l’80% delle famiglie dichiara di ritenere complessa la gestione delle proprie finanze personali a causa dell’incertezza e di una bassa educazione finanziaria (CONSOB, 2022), il progetto aveva anche l’obiettivo di innalzare il livello qualitativo della consulenza finanziaria.
Tutto questo potenziando e mettendo a sistema le buone pratiche esistenti, ottimizzando il match tra prodotti finanziari e preferenze del cliente, e strutturando un nuovo processo di consulenza finanziaria che fosse rispettoso dei principi cardine della cultura organizzativa esistente.
Per farlo abbiamo applicato un metodo basato su 3 elementi fondamentali:
- La mappatura della cultura organizzativa esistente attraverso un processo di ricerca mixed-methods.
- Un approccio sistemico, che ha tenuto conto delle relazioni tra ruoli manageriali e operativi, e tra persone e contesto di lavoro.
- Il design partecipativo, che ci ha permesso di utilizzare la lente delle scienze comportamentali come strumento di potenziamento delle capacità decisionali delle persone, supportandole nel divenire “architetti” dei loro stessi processi e strumenti di lavoro.
In particolare, la mappatura mixed-methods della cultura organizzativa ci ha consentito di analizzare in ottica integrata i risultati provenienti da un questionario somministrato alla popolazione di gestori, una serie di osservazioni qualitative sul campo e interviste semi-strutturate direttamente ai protagonisti del progetto.
I risultati di questa fase di ricerca ci hanno poi permesso di disegnare degli interventi di change aderenti ai reali bisogni della popolazione target.
LA VOCE DELL’ESPERTA: CRISTINA BICCHIERI SU NORME SOCIALI E MISURAZIONE DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA
Cristina Bicchieri è Professoressa alla University of Pennsylvania e direttrice del Penn Center for Social Norms and Behavioral Dynamics. Abbiamo dialogato con lei per comprendere meglio come affrontare la misurazione in un concetto complesso e multiforme come la cultura organizzativa.