Norme Sociali e Misurazione della Cultura Organizzativa. Intervista a Cristina Bicchieri
Frammento dell’articolo su HBR Italia “Culture Mapping. Una Lente per Mappare il Visibile e l’Invisibile della Cultura Organizzativa” (LEGGI L’ARTICOLO) a cura di Martina Cecchini, Marta Coser, Giulia Bussi
Cristina Bicchieri è Professoressa alla University of Pennsylvania e direttrice del Penn Center for Social Norms and Behavioral Dynamics. Abbiamo dialogato con lei per comprendere meglio come affrontare la misurazione in un concetto complesso e multiforme come la cultura organizzativa. Con lei abbiamo approfondito il ruolo delle norme sociali come elemento fondante del linguaggio della cultura organizzativa, e il potenziale che gli interventi basati su norme possono avere nei progetti di cambiamento sostenibile delle aziende.
Professoressa, a suo parere, che cosa significa, per un’impresa, avere una cultura?
Significa che l’organizzazione ha deciso di fare propri dei valori che a loro volta si esprimono con delle regole, cioè delle norme, spesso implicite e informali. E per poter lavorare con queste norme, bisogna comprendere due aspetti fondamentali: il primo è che una norma è un insieme di aspettative verso i comportamenti e le convinzioni altrui, ovvero ciò che gli altri fanno e ciò che approvano o disapprovano. Il secondo è che queste aspettative non influenzano sempre e comunque il comportamento. Per definire una norma, è quindi fondamentale dimostrare che le persone agiscono sulla base di queste aspettative, e che se l’aspettativa cambia, cambia anche il comportamento. Per farlo, la misurazione è fondamentale.
Nella sua esperienza sul campo, quali sono le maggiori sfide che le imprese incontrano quando vogliono attivare meccanismi di misurazione data-driven?
Uno dei vincoli maggiori nel mondo delle imprese è il tempo. Il problema più grande è l’assenza di studi longitudinali, ovvero la ripetizione di misurazioni nel corso del tempo per verificare se un certo risultato permane. Spesso, dopo un primo successo iniziale, può capitare che le persone tornino ai loro comportamenti iniziali, soprattutto quando non c’è stato un cambiamento più profondo nelle loro convinzioni e aspettative. Per questo è importante monitorare il cambiamento a distanza di tempo.
E che ruolo gioca una buona cultura del dato nell’affrontare queste sfide?
La cultura del dato è fondamentale. Ma bisogna comprendere che per avere una cultura del dato efficace non basta essere consapevoli della necessità di misurare e raccogliere dati, ma anche coltivare le competenze per decidere quali dati raccogliere per misurare determinati fenomeni, come li si raccoglie e come si interpretano. Dobbiamo sapere che anche i dati che raccogliamo possono essere soggetti a bias, soprattutto quando le persone sanno che tipo di risposte ci si aspetta da loro.
Ma una volta che identifichiamo un comportamento non funzionale in una organizzazione, come possiamo utilizzare il potere delle norme per comprenderlo e magari modificarlo?
Innanzitutto bisogna indagare se il comportamento sia effettivamente guidato da una norma, oppure se si tratti semplicemente di un’abitudine collettiva, indipendente da ciò che gli altri fanno o pensano. Se la norma esiste, possiamo utilizzare strumenti di norm nudging per modificare il comportamento. Una delle strategie emergenti è l’uso di norme dinamiche: ad esempio, per promuovere il riciclo, si può trasmettere il messaggio che negli ultimi anni sempre più persone riciclano.
In che modo possiamo noi consulenti accompagnare in modo efficace queste trasformazioni, abilitando le persone a evolvere insieme al loro sistema di norme sociali?
Le norme sono spesso espressione di valori profondi, che è molto difficile cambiare. E non è consigliabile cercare di cambiarli svalutandoli o criticandoli, altrimenti le persone non ti ascoltano più. La strategia migliore è far capire che questi valori possono essere declinati e portati avanti anche adottando comportamenti diversi e più funzionali.
Quindi, secondo lei, è possibile utilizzare questi interventi per realizzare gli obiettivi di sostenibilità delle imprese, affinché la cultura possa adattarsi alle sfide del futuro?
Affinché le culture organizzative possano stare al passo delle sfide di sostenibilità, è fondamentale preservare la capacità decisionale delle persone e dei team. Fare in modo che sentano di poter contribuire in prima persona agli obiettivi di sostenibilità, in modo da farli propri. Gli obiettivi di sostenibilità vanno spezzettati e declinati sulla base dei vari ambiti di competenza e azione di team e persone, affinché sappiano cosa possono fare loro in prima persona. Solo in questo modo il discorso sulla sostenibilità può supportare il senso di appartenenza delle persone all’organizzazione e alla sua cultura, e promuovere una buona cittadinanza organizzativa.
Intervista tratta dall’articolo pubblicato su HBR Italia “Culture Mapping. Una Lente per Mappare il Visibile e l’Invisibile della Cultura Organizzativa” a cura di Martina Cecchini, Marta Coser, Giulia Bussi