Insights 16 Settembre 2024

Adoption is More than Learning. Il Superpotere delle Behavioural Science nel Change Management

Pierpaolo Peretti Griva

Managing Partner

Silvio Trombetta

Managing Partner

Pierluigi Piva
Pierluigi Piva

Consulente

Giampaolo Abate
Giampaolo Abate

Consulente

articolo su HBR Italia a cura di Pierpaolo Peretti Griva, Silvio Trombetta, Pierluigi Piva, Natascia Palmina D’Amico e Giampaolo Abate Romero Landini

Per rimanere competitive in un mondo in cui la globalizzazione è diventata ancora più pervasiva, la tecnologia ancora più avanzata e il cambiamento climatico una minaccia crescente, le aziende hanno bisogno non solo di adattarsi, ma soprattutto di innovare e far evolvere costantemente la loro strategia; tutto questo in una logica di sostenibilità, cioè soddisfacendo i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future.

La globalizzazione dei mercati, pur con qualche battuta d’arresto in alcuni settori, continua ad aumentare la concorrenza, la diffusione dell’innovazione e soprattutto la capacità di rispondere in modo sempre più veloce e personalizzato alle mutevoli esigenze dei clienti. Aumentano interconnessioni e complessità, dalle catene di approvvigionamento, alle fluttuazioni valutarie, alle variazioni normative e legali. E soprattutto aumentano le tensioni e i rischi geopolitici, che possono generare ostacoli imprevisti o cambiamenti repentini nelle condizioni di mercato.

L’uso di combustibili fossili, le colture intensive, la deforestazione e gli stessi sviluppi di tecnologie altamente energivore accrescono sempre più le emissioni di gas serra e incidono drasticamente sul riscaldamento globale, creando cambiamenti ed eventi climatici estremi, con impatti rilevanti anche a livello sociale, come sfollamenti, migrazioni, aumento delle disuguaglianze, diffusione di malattie, ecc.

In questo scenario, acquisiscono un vantaggio significativo e una sostenibilità a lungo termine quelle organizzazioni che sanno adattarsi rapidamente e positivamente a questi cambiamenti, cioè organizzazioni che sanno generare e portare al mercato innovazione, che sanno cambiare pelle velocemente, adottando nuovi modelli di servizio, nuovi comportamenti di leadership e di relazione con i clienti più fidelizzati, nuove tecnologie in grado di aumentare non solo le loro customer experience e la loro efficienza operativa, ma anche la loro efficienza energetica e le loro employee experience. Quindi diffusione dell’innovazione, cambiamento e adozione sono aspetti chiave e strettamente interconnessi, intorno ai quali si giocano le strategie competitive.

Se l’adozione della tecnologia e la diffusione dell’innovazione sono processi continui e componenti integranti dell’evoluzione e del miglioramento organizzativo, il change management è il meccanismo di coinvolgimento che porta a bordo le persone in queste trasformazioni e aiuta le organizzazioni a metabolizzare nelle proprie pratiche i nuovi modelli operativi e le nuove tecnologie. Per cui, per uno sviluppo organizzativo sostenibile e di successo, occorre un approccio olistico che consideri le interdipendenze tra questi concetti e dedichi particolare attenzione ai processi di Change e Adoption.

1. GLI APPROCCI TRADIZIONALI AL CHANGE MANAGEMENT E ALL’ADOPTION

Spesso le organizzazioni dedicano budget importanti per progettare nuovi modelli organizzativi o per acquisire nuove tecnologie e confidano, più o meno consapevolmente, che il cambiamento possa avvenire in maniera spontaneistica e organica. L’overconfidence che l’Adoption dell’innovazione possa realizzarsi facendo fare un training massivo di addestramento o organizzando qualche townhall informativa o una campagna di comunicazione (che generi il senso di urgenza ed esorti a “darsi una mossa” per fare accadere il cambiamento) è molto diffusa e predice in genere un fallimento, totale o parziale, rispetto agli obiettivi attesi.
Per fare qualche esempio vissuto direttamente, immaginiamo l’implementazione di una salesforce in una multinazionale di produzione e distribuzione consumer goods. Progetto strategico triennale. Risorse importanti dedicate alla mappatura e al redesign della customer journey, dal presales, al sales, all’after sales. Altre altrettanto importanti per definire una clusterizzazione condivisa dei clienti basata sui cicli di vita, integrando obiettivi di gestione, dati personali e informazioni aziendali tali da consentire una visione unica del cliente attraverso i vari dipartimenti. Risorse ancora più importanti dedicate al software, ai tool tecnologici e alla system integration.

In questo volume di investimento, le briciole (forse l’1%) vengono destinate per portare a bordo le persone, in base all’idea che intanto i processi cambiano e, man mano che procede il piano di implementazione sulla singola Country (i famigerati roll out), i Country Manager sponsorizzano il cambiamento, i Sales Manager partecipano a un training di utilizzo delle nuove funzionalità e poi ne garantiscono l’adozione spiegando ai loro collaboratori il nuovo modo di lavorare, dalla preparazione della visita, alla gestione della visita al punto vendita, al riassortimento.

Ci si illude che due o tre giornate di full immersion formativa e manuali con procedure operative possano alla fine garantire l’abbandono di abitudini storiche, consolidate nel tempo, e generare nuove routine che utilizzano al meglio le meravigliose possibilità della nuova tecnologia: una sorta di aspettativa magica, una fiducia incondizionata nella razionalità degli esseri umani ad abbracciare il nuovo, per il solo fatto che il management porta buone ragioni a sostegno, i program manager e i project manager hanno definito milestone e deadline di implementazione e poi trainer o change agent insegnano alle persone cosa fare.

Anche la letteratura scientifica conferma che questi approcci tradizionali si sono concentrati, e potremmo dire appiattiti, storicamente su una change formula (Cady et al. 2014) che delinea quattro elementi chiave necessari per garantire il successo del cambiamento:

  • un senso di urgenza e di insoddisfazione rispetto allo stato attuale (Kotter, 1995, 2008);
  • una visione forte che spiega il Why e il What del cambiamento (Senge 1990, Gill 2003);
  • un processo chiaro e governato (Beckhard & Harris, 1987; Armenakis & Bedeian, 1999);
  • il tutto in grado di superare le inevitabili resistenze e i costi percepiti del cambiamento (Lewin, 1947).

Nelle pratiche più diffuse di gestione del cambiamento e di abilitazione delle persone, questi quattro elementi chiave della change formula vengono, per lo più, declinati concretamente in:

  • implementazioni top-down, in cui il senior mana- gement o il dipartimento IT prendono decisioni su quali soluzioni adottare e come verranno implementate (aspettandosi poi che le persone rispettino queste decisioni e si adattino ai cam- biamenti senza necessariamente avere voce in capitolo nel processo);
  • piani di gestione del cambiamento focalizzati soprattutto su aspetti logistici, come le tempistiche del progetto, i budget e l’allocazione delle risorse (e solo in parte su piani di comunicazione e strategie di coinvolgimento delle parti interessate, senza una profonda comprensione dei fattori umani coinvolti nel cambiamento delle abitudini o nell’esperienza quotidiana di adozione della tecnologia);
  • formazione tecnica, incentrata sulle caratteristiche tecniche e sulle funzionalità delle nuove soluzioni: più addestramento che formazione vera e propria;
  • formazione one size fits all: cioè una formazione unica per tutti, che presuppone che tutte le popolazioni organizzative abbiano le stesse esigenze operative e le stesse preferenze di apprendimento;
  • documentazione e manuali di supporto, da consultare quando si incontrano problemi o c’è bisogno di assistenza durante l’utilizzo della nuova tecnologia;
  • valutazione post-implementazione, generalmente focalizzata sulla valutazione delle prestazioni tecniche e della funzionalità del sistema (che può non catturare adeguatamente la soddisfazione degli user o l’impatto percepito sui processi lavorativi).

Sebbene questi approcci tradizionali contengano buone pratiche da valorizzare e replicare, tuttavia tendono a trascurare gli aspetti esperienziali dell’adozione, a partire dalle differenze nei segmenti di user coinvolti dal processo di adozione, le loro convinzioni, motivazioni e capacità relative al cambiamento o alla tecnologia da implementare, le loro abitudini funzionali e disfunzionali già presenti, i nuovi comportamenti chiave da adottare, fino ad arrivare alle risorse ambientali a disposizione, ai vincoli, alle barriere e alle friction che possono rendere l’adozione faticosa e ai network sociali (reference network) che possono supportare o frenare il processo stesso.

Tutti questi aspetti, spesso invisibili, diventano “differenze che fanno la differenza” per avere successo nel processo di Change e di Adoption. C’è quindi bisogno di nuovi occhiali che aiutino a rendere visibile questo invisibile e poi c’è bisogno di aggiornare i framework di riferimento; per tutto questo ci sembrano molto interessanti le Behavioural Science, con i loro insight.

2. IL CONTRIBUTO DELLE BEHAVIOURAL SCIENCE AL CHANGE MANAGEMENT E ALL’ADOPTION

In questi anni abbiamo assistito a un importante sviluppo delle Behavioural Science (BS), un insieme cross-disciplinare di studi scientifici interessati a comprendere la complessità del comportamento umano attraverso l’utilizzo sistematico di esperimenti ed osservazioni.
Le scienze comportamentali, grazie ai lavori pionieristici di tre Premi Nobel come Herbert Simon, Daniel Kahneman e Richard Thaler, ai modelli e alle evidenze sperimentali provenienti dalla psicologia cognitiva e sociale, dalle neuroscienze e dall’economia comportamentale, offrono Behavioural Insight (BI) e indicazioni puntuali per:

  • diagnosticare le barriere che impediscono alle singole persone o gruppi sociali di assumere un determinato comportamento;
  • identificare i fattori abilitanti che supportano le persone e le comunità nel raggiungere i loro obiettivi;
  • progettare e misurare l’impatto degli interventi.

In particolare, le Behavioural Science (BS), studiando scientificamente e con un approccio evidence-based il modo in cui le persone prendono decisioni e si comportano effettivamente, hanno dimostrato che il comportamento umano è complesso, e che non è semplicemente il risultato di un ragionamento razionale e deliberato. Infatti, non sempre il comportamento effettivo coincide con quello dichiarato: quando il “da domani userò la tecnologia X e sono convinto che otterremo tutti grandi benefici” si scontra con abitudini consolidate, status quo soddisfacenti che vengono minacciati o nuove fatiche di apprendimento, alla fine rimane una buona dichiarazione di adesione, ma non si trasforma in un’azione e nemmeno in una vera e propria intenzione. Questa distanza tra dichiarato e comportamento diventa ancora più rilevante oggi che ci confrontiamo con le sfide derivanti dall’adozione dell’AI nei processi organizzativi.

L’INDIVIDUO DI FRONTE AL CAMBIAMENTO, SECONDO LE BEHAVIOURAL SCIENCE

Come aveva già evidenziato Herbert Simon negli anni ’50, gli esseri umani sono agenti a razionalità limitata che, per caratteristiche strutturali dei loro sistemi percettivi, cognitivi ed emotivi, non dispongono di tutte le risorse necessarie per riflettere attentamente su come comportarsi, ma si affidano a scorciatoie mentali (euristiche) e a processi intuitivi, automatici e spesso inconsci, per semplificare ed accelerare il processo decisionale. Queste modalità, a volte funzionali all’efficienza, possono, tuttavia, indurre a distorsioni e ad errori di giudizio (bias) e, nei processi di trasformazione, a possibili resistenze al cambiamento.

Alcuni dei bias più comuni nel Change Management sono, ad esempio (Acciarini et al. 2021):

  • Dare più peso alle perdite potenziali rispetto ai benefici equivalenti, con una sovrastima dei rischi e degli effetti negativi del cambiamento e una sottovalutazione dei vantaggi (loss aversion bias);
  • Preferire lo stato attuale delle cose rispetto a un cambiamento, anche se questo sarebbe vantaggioso (status quo bias);
  • Procrastinare e rimandare eventuali fatiche, preferendo ricompense immediate rispetto a quelle future, anche se queste ultime sono di maggior valore (hyperbolic discount);
  • Cercare, interpretare e ricordare le informazioni in modo da confermare le proprie credenze o ipotesi preesistenti invece di mettere in discussione la propria opinione (confirmation bias);
  • Giudicare la probabilità di un evento in base alla facilità con cui viene richiamato in memoria (availability heuristic);
  • Sovrastimare le proprie abilità, conoscenze o capacità di previsione (overconfidence bias).
  • Su queste basi, le Scienze Comportamentali offrono tre assunti fondamentali e un insieme di insight utilissimi per progettare e implementare gli interventi di Change e Adoption in una logica people-centrica, aumentandone così le probabilità di efficacia e la velocità di realizzazione. Vediamoli uno alla volta.

1. Il comportamento e l’approccio al cambiamento è influenzato da FATTORI INDIVIDUALI, in particolare dalle modalità con cui le persone elaborano le informazioni e prendono decisioni.

Soprattutto nei processi di cambiamento e nelle situazioni di incertezza, le persone si trovano ad affrontare più decisioni e informazioni di quelle che possono elaborare consapevolmente. Per cui decidono utilizzando alternativamente due diversi sistemi di pensiero (Kahneman, 2011):

  • a) il Sistema 1, veloce, intuitivo e subattentivo, a basso carico cognitivo, basato su esperienze passate, automatismi e conoscenze pregresse, reattivo agli stimoli e utile per prendere decisioni rapide, ad esempio fermarci immediatamente se sbuca una macchina mentre attraversiamo la strada, afferrare o scansare una palla che ci sta arrivando addosso o leggere distrattamente un cartellone pubblicitario;
  • b) il Sistema 2, lento, riflessivo e consapevole, che richiede uno sforzo cognitivo maggiore e viene utilizzato per prendere decisioni nuove, non-routinarie e più complesse, come calcolare i numeri di un bilancio, fare un business plan o parcheggiare la macchina in uno spazio ristretto.

Avere troppe informazioni, troppe scelte o troppe decisioni da elaborare (choice overload) porta a un sovraccarico cognitivo (cognitive overload) e a un affaticamento decisionale (decision fatigue) che ci induce ad attivare il Sistema 1, prendendo così decisioni impulsive, spesso satisficying (una combinazione di sufficiente e soddisfacente), percepite come “abbastanza buone” piuttosto che veramente ottimali. Per questo, negli interventi di Change e Adoption diventa utilissimo:

  • semplificare e personalizzare messaggi, processi e comportamenti chiave per le varie popolazioni organizzative, ad esempio individuando e specificando i comportamenti essenziali per gestire una determinata situazione o creando infografiche, rappresentazioni visive o canvas con domande guida, che facilitano la costruzione di un modello mentale della situazione e che accompagnano, un passo alla volta, le decisioni importanti (smart heuristic);
  • aumentare la salienza e la facilità di accesso alle informazioni utili per rendere più probabili le buone decisioni di interesse collettivo o supportare nell’orientamento;
  • creare dei rational override, cioè dei piccoli momenti di friction intenzionale (o anche barriere funzionali) davanti a decisioni importanti o a momenti di monitoraggio per sospendere il pilota automatico, rallentare e attivare il processo riflessivo del Sistema 2, come, ad esempio, domande di verifica di quanto la persona sia convinta della scelta che sta per fare, alert, checklist, prefigurazione di piani di azione e compilazione di impegni (commitment contract) (Van Lieren, Calabretta and Shoormans, 2018).

Ma oltre a queste azioni di design dell’experience di Change & Adoption, diventano cruciali tre azioni che hanno a che fare con il sense-making e l’approccio di strutturazione degli interventi, cioè:

  • inquadrare il cambiamento e l’adozione in una cornice di senso (framing effect) collegata all’ambition di sostenibilità e alla sustainability scorecard dell’organizzazione per facilitare la focalizzazione del purpose e degli impatti positivi che il cambiamento si propone di generare, e per stimolare le persone a progettare e sperimentare comportamenti positivi coerenti con questa ambition;
  • adottare un mindset e un approccio Agile, cioè un approccio iterativo e incrementale che migliora progressivamente le decisioni in funzione dei dati e dei fatti via via acquisibili e che apprende dagli errori, integrando le esigenze, i suggerimenti e i feedback dei vari stakeholder;
  • adottare anche un approccio di empowerment, cioè un approccio dove sono gli employee, e non solo i manager, responsabili nella definizione del loro modo di lavorare e del cambiamento e dove anche le loro decisioni possono fare la differenza. Avere spazi di job crafting permette alle persone di metabolizzare il cambiamento all’interno delle proprie routine (IKEA Effect), aumentando l’autonomia, il senso di protagonismo e lo stesso senso di appartenenza a un viaggio collettivo. Più le loro decisioni saranno focalizzate sulla qualità dell’output, sul miglioramento continuo e sull’eliminazione di tutto ciò che non aggiunge valore (al cliente, al prodotto, all’azienda e all’ambiente), più il cambiamento avrà impatti positivi e di successo.
2. Il comportamento e l’approccio al cambiamento è influenzato da FATTORI SOCIALI, ovvero dalla struttura e dalla qualità della rete di relazioni e dai modelli di riferimento.

Gli esseri umani sono esseri sociali, che per loro natura si preoccupano di ciò che pensano e di come agiscono le persone che rappresentano per loro dei punti di riferimento (Bicchieri, 2016; Cialdini et al., 2006). Per questo, anche nei contesti organizzativi, le persone fanno il possibile per allineare i loro comportamenti a quelli degli altri membri del gruppo in cui sono inseriti, e alle aspettative che le figure in posizione di leadership trasmettono loro, sia esplicitamente che implicitamente. Di qui l’importanza di mappare le caratteristiche delle reti sociali in cui le varie popolazioni organizzative sono immerse, misurare quali comportamenti e aspettative sono percepiti come maggioritari in quel contesto e fare leva sul potere dell’influenzamento sociale per supportare gli obiettivi di cambiamento del progetto.

3. Il comportamento e l’approccio al cambiamento è fortemente influenzato da FATTORI AMBIENTALI, in quanto la maggior parte delle nostre decisioni sono automatiche, sub-attentive e rispondono a ciò che ci circonda.

Infatti, dato che per ridurre il carico cognitivo utilizziamo per lo più il Sistema 1, le nostre azioni e decisioni vengono condizionate in particolare dallo spazio fisico in cui viviamo e ci muoviamo, dalle barriere e dalle tracce che percepiamo, dagli oggetti, dalle loro forme e dai loro inviti all’uso (affordance), dai segnali informativi (alert, feedback, reminder), da come le informazioni vengono presentate (choice architecture), da quali informazioni vengono presentate prima delle altre (framing & priming) e dal momento in cui l’esperienza avviene (timing). Di qui l’importanza, nel processo di Change e Adoption di:

  • partire da un’analisi concreta e accurata dell’esperienza di utilizzo TO BE della tecnologia o dei comportamenti da adottare, all’interno della user journey e del contesto specifico;
  • arrivare poi a progettare il flusso d’intervento come un’experience continuativa, personalizzata sulle esigenze operative, le competenze e le motivazioni specifiche della popolazione;
  • valorizzare il più possibile risorse e abitudini già presenti nell’esperienza AS IS;
  • mettere a disposizione sistemi di spinta (nudge) e di potenziamento delle competenze (boost) continuativi, presenti e facilmente accessibili nel momento specifico in cui servono.

Per capire concretamente cosa intendiamo, possiamo prendere spunto da alcune nostre esperienze in contesti industriali. Se vogliamo velocizzare e aumentare in maniera consistente l’adozione di occhiali di realtà aumentata per le manutenzioni in una popolazione operativa, non basta fare un buon training su come farli funzionare e perché vale la pena usarli, ma abbiamo bisogno innanzitutto di mappare la user journey (dalla programmazione delle manutenzioni, all’organizzazione dei turni, fino al momento della manutenzione vera e propria e alla compilazione del report di chiusura).

Il passo successivo è far emergere pain and gain dei vari ruoli coinvolti nel processo, e individuare le buone pratiche degli Innovator o di quegli Early Adopter che evidenziano subito un’alta percentuale di adozione. In questo modo possiamo scoprire, ad esempio, che il casco con l’occhiale fa sudare più di un casco tradizionale, e questa apparente piccola scomodità dell’oggetto diventa barriera significativa all’adozione, che richiede uno sprint agile di miglioramento dell’oggetto, dei tempi e dei modi di utilizzo.

Infine, possiamo validare, attraverso una sperimentazione controllata (randomized controlled trial), l’efficacia e l’efficienza di alcune semplici architetture delle scelte, come l’introduzione di una default option già in fase di pianificazione delle manutenzioni. In questa nuova default option il tecnico coordinatore segnala quali sono le manutenzioni in cui si consiglia fortemente l’uso dell’occhiale, e quelle che invece fanno eccezione a seconda del livello di complessità e di rischio, ma lascia la decisione finale agli operatori stessi, chiedendo loro di compilare un modulo di segnalazione nel caso in cui decidano in maniera contraria rispetto al suggerimento.

In questo modo si genera una semplificazione per chi utilizza l’occhiale e una “piccola fatica” (friction), cioè la compilazione del modulo di segnalazione, sull’opzione di scelta meno funzionale, che permette di aumentare la consapevolezza e la responsabilità sulla scelta, raccogliere dati sulle manutenzioni percepite come incoerenti con l’utilizzo dell’occhiale e soprattutto evitare fraintendimenti ed alibi (vedi figura 1).

Figura 1 – Occhiali Smart con AI integrata per applicazioni industriali
Fonte: MIDA generata con AI

Un altro ambito in cui è facile cogliere l’importanza dell’ambiente nel processo decisionale, e quindi nella progettazione degli interventi di Change e Adoption, è quello della sicurezza sul lavoro. Tutti siamo consapevoli che gli esseri umani non si sono evoluti per lavorare negli uffici e nelle fabbriche; questi ambienti, con i loro pericoli, per noi umani sono nuovi di zecca. Per cui, se vogliamo essere efficienti ed efficaci nella riduzione di incidenti e rischi, dobbiamo progettare delle soluzioni coerenti e funzionali alle nostre capacità percettive, ai nostri giudizi emotivi e ai nostri sistemi innati di valutazione dei pericoli.

Di qui l’idea, per esempio, di dare nuova vita alla cultura della sicurezza e rifocalizzare l’attenzione di persone overconfident sull’adozione di comportamenti sicuri, attraverso un concept non convenzionale: l’uso di immagini di animali pericolosi.

Studi scientifici confermano che l’elaborazione inconscia di stimoli che hanno per l’uomo un significato evolutivo, come, appunto, gli animali pericolosi, induce cambiamenti neurofisiologici momentanei dell’amigdala (centro della paura) che a loro volta rendono più salienti le informazioni e influenzano significativamente il comportamento (Tamietto & De Gelder, 2010).

Questo concept diventa il punto di partenza per co-progettare con un team multifunzionale un ecosistema permanente di comunicazione e di engagement sulla sicurezza, coerente con il Modello E.A.S.T., il framework sviluppato dal Behavioural Insights Team (BIT) nel 2012, per rendere accessibili e di facile uso gli insight delle Behavioural Science ai policy maker e agli industry leader (vedi figure 2, 3 e 4).

Figura 2 e 3 – Esempio di ecosistema permanente di engagement sulla sicurezza
Fonte: MIDA

Grazie agli spunti del modello, l’ecosistema diventa:

  • Easy: con uno storytelling semplice, diretto, per nulla tecnico e ad alto impatto emotivo, collegato ai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite;
  • Attractive: con visual d’impatto (soggetti inusuali, colori saturi) che toccano dimensioni emotive, attirano l’attenzione (salienza) e fanno pensare;
  • Social: con messaggi e artefatti diffusi nei luoghi dello stabilimento dove i lavoratori interagiscono tra loro, per fare in modo che la sicurezza diventi un tema condiviso;
  • Timely: con nuovi touchpoint fisici e con il potenziamento di quelli già esistenti in tutte le aree dello stabilimento, perché i messaggi arrivino al momento giusto, diventino parte integrante dell’ambiente di lavoro e siano le persone stesse ad aggiornarli in funzione di cosa sta funzionando bene e cosa va migliorato.
Figura 4 – Esempio di ecosistema permanente di engagement sulla sicurezza
Fonte: MIDA

Un nuovo manifesto per il Change Management e l’Adoption

Dagli insight e dagli esempi sopra descritti si può cogliere come e quanto le Behavioural Science (BS) offrano occhiali per capire il comportamento umano e strategie efficaci per progettare, sperimentare scientificamente e misurare i cambiamenti di un’organizzazione. Un approccio Behavioural Science based lavora sullo scoprire e rendere visibili i fattori chiave che influenzano le decisioni e i comportamenti, e poi aiuta a tenerli in considerazione nella progettazione degli interventi e a valorizzarli talvolta come fattori abilitanti, “spinte gentili” (nudge) o “potenziatori di competenze” (boost) per orientare il cambiamento o attenuarne l’impatto se incoerenti o contrari agli obiettivi strategici.

Per poter utilizzare questo approccio negli interventi organizzativi, però, occorre mettere a fuoco gli apprendimenti e i principi chiave che lo caratterizzano, in una sorta di manifesto che si propone di promuovere uno sviluppo del Change Management e dell’Adoption più adattabile e orientato alle persone e all’impatto, piuttosto che rigidamente strutturato e orientato al processo. Nella prospettiva della Peoplecology, i principi di un manifesto per il Change Management e l’Adoption Behavioural Science Based possono essere i seguenti:

  1. È fondamentale che ogni cambiamento organizzativo sia guidato da un purpose, cioè dallo scopo e dall’ambizione di avere un impatto positivo e misurabile sull’ambiente, sulle persone e sulle comunità, valorizzando ciò che c’è già più di ciò che non c’è ancora, e integrando i valori dell’interdipendenza, della trasparenza e della rigenerazione. Il purpose dell’organizzazione e della sua innovazione è la cornice di senso e il “perché ne vale davvero la pena” di ogni cambiamento;
  2. Il cambiamento organizzativo, per avere impatto, deve concretizzarsi in comportamenti chiave, cioè in azioni specifiche e sequenze di micro-azioni precise (routine) in grado di far succedere lo stato atteso, diventando quindi un cambiamento comportamentale, che va definito in termini comportamentali (Michie et al., 2014);
  3. Il cambiamento comportamentale, per avere grandi impatti, ha bisogno di comportamenti specifici moltiplicati per una massa critica di persone che li compiono insieme, generando così grandi effetti e grandi trasformazioni (in questi ultimi 20 anni, in ambito pubblico, policy maker come Obama, Cameron, ecc. hanno attinto a piene mani dalle scienze comportamentali e hanno creato delle BS Unit proprio sulla base di questo assunto: piccoli cambiamenti comportamentali, per grandi numeri di persone, significano grandi cambiamenti e grandi impatti);
  4. Il cambiamento comportamentale, per essere effettivo e duraturo, ha bisogno di essere stabilizzato in nuove abitudini, cioè in nuove routine comportamentali che sostituiscono o fanno evolvere quelle precedenti e automatizzano, attraverso comportamenti subattentivi e strategie euristiche a basso carico cognitivo, il nuovo modo di fare;
  5. Il cambiamento comportamentale è complesso e coinvolge un insieme di aspetti individuali, sociali e ambientali, che, se allineati e focalizzati in una precisa direzione, costituiscono gli abilitatori e gli stabilizzatori del cambiamento, ma, se invece non focalizzati e non governati, possono diventare forze centrifughe e resistenze rispetto alla realizzazione dello stato atteso;
  6. Per generare, governare e stabilizzare il cambiamento comportamentale e organizzativo, non bastano solo informazioni e training, ma occorre progettare e orchestrare un insieme coerente, continuativo e iterativo di interventi (change ecosystem) in grado di influenzare e/o potenziare quegli aspetti individuali, sociali e ambientali che costituiscono gli antecedenti e gli abilitatori del comportamento stesso, come evidenziato dal modello COM-B, oggi il più diffuso e solido framework per il cambiamento comportamentale, e dalle 90 strategie della sua Adoption Wheel (Michie et al., 2011).
  7. “Adoption is more than learning” è il principio guida che permette di tenere a mente che tra “il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, un mare di significati e visioni confuse e non allineate, di bias e resistenze al cambiamento, di esclusioni percepite e non rielaborate, di blocker culturali e ambientali che quotidianamente lavorano sotto il pelo dell’acqua, invisibili, nel frenare e, a volte, boicottare la vogata collettiva verso la meta desiderata.

Proprio qui, in questo mare, tra il dire e il fare, c’è lo spazio d’azione, di progettazione e di consulenza del Behavioural Change Designer, una figura indispensabile in ogni processo di cambiamento organizzativo, che aiuta i protagonisti del cambiamento a cogliere lo scopo finale di beneficio comune (purpose), ad esplorare questo mare per conoscerne correnti funzionali e disfunzionali e a disegnare, con loro, attraverso cicli agili e continuamente aggiornati da feedback e dati, rotte e strumenti per “trasformare il dire in fare” e stabilizzarlo in un “nuovo fare continuativo”.

In conclusione, per uno sviluppo organizzativo sostenibile e di successo, diventa particolarmente utile un approccio che integri gli insight delle Scienze Comportamentali nel Change Management e nell’Adoption. Questo approccio mette l’experience del change e la persona al centro, considera le differenze tra i vari “segmenti di user” e tiene conto delle convinzioni, motivazioni e capacità degli employee relative al cambiamento o alla tecnologia da implementare. Inoltre, considera le abitudini funzionali e disfunzionali già presenti, i nuovi comportamenti chiave da adottare e le risorse ambientali a disposizione, così come i vincoli, le barriere e le frizioni che possono rendere l’adozione faticosa. Infine, valorizza i network sociali che possono supportare o frenare il processo di cambiamento.

Tutto questo per noi è una delle leve fondamentali della Peoplecology per supportare le aziende a rimanere competitive e sostenibili nel lungo termine.