Insights 21 Ottobre 2024

Personal Flourishing. Dal Benessere Individuale alla Performance Organizzativa

articolo su HBR Italia a cura di Giovanna Dezza, Mariavittoria Gennaro


La sfida del nostro tempo richiede la capacità di elaborare un pensiero ecologico e sistemico, che legga le organizzazioni come realtà complesse, dove i diversi elementi sono interconnessi e interdipendenti e le persone al centro.

La prima domanda è: le persone come stanno?

Come si evince dai dati a disposizione, si veda ad esempio quanto riportato nell’articolo “Strategia di Wellbeing Aziendale. Il Valore del Benessere”, c’è un evidente malessere diffuso che sempre più pone al centro del dibattito politico, economico e aziendale l’importanza delle persone e del loro benessere.

Questa rinnovata attenzione si inserisce a pieno titolo nel paradigma della sostenibilità, per certi versi “rivoluzionario”, dato che non considera solo il profitto, ma anche lo sviluppo e il benessere della comunità e dell’ambiente, o meglio, è consapevole che c’è una relazione di interdipendenza tra benessere dell’individuo, dell’ambiente e dell’organizzazione.

Adottare questa visione di PEOPLECOLOGY significa adottare il paradigma della sostenibilità, cercando in primo luogo di comprendere le interrelazioni esistenti fra gli esseri umani e l’ambiente che li ospita, in questo caso l’organizzazione, per meglio capire il cambiamento in atto e come accompagnarlo.

Mai come ora il “bene” di una parte del sistema si traduce nel “bene” delle altre parti: è un approccio sistemico ed ecologico al contempo

Lo scopo è quello di poter identificare i fattori che vengono chiamati in causa per raggiungere e mantenere nel tempo un equilibrio dinamico e quindi una particolare stabilità evolvente dell’ecosistema, perché sia così in grado di reagire efficacemente al cambiamento.

È evidente come tutto questo si leghi ai temi del benessere e della felicità delle persone: un ecosistema ecologico è un sistema dove le persone stanno bene, in equilibrio dinamico tra adattamento ed evoluzione.

PERSONAL FLOURISHING E BENESSERE

Ma cosa significa “stare bene”? Quando stiamo bene?

Se ci pensate, la percezione di benessere nella nostra vita è data da più elementi, ognuno dei quali contribuisce al benessere, ma non lo esaurisce. Possiamo stare bene quando facciamo una passeggiata, andiamo fuori a cena con gli amici; ma stiamo bene anche quando facciamo qualcosa di buono, di utile per gli altri, quando sentiamo di contribuire alla realizzazione di un valore, di qualcosa che è più grande di noi.

Possiamo dunque distinguere tra un benessere legato alla percezione del piacere e un benessere legato alla realizzazione del proprio daimon, del “vero sé”, più precisamente tra una dimensione edonica e una eudaimonica.
L’eudaimonia va oltre il concetto di felicità e viene accostata al benessere più in senso lato, inteso come generato dal rispetto e dalla realizzazione della propria vera natura, e come il risultato dell’inseguimento e raggiungimento di obiettivi positivi o di nobili cause il cui fine va oltre il proprio ego (“felicità oltre sé stessi”). Il benessere non sarebbe quindi un risultato o uno stato finale, quanto piuttosto un processo di realizzazione personale.

James Pawelski (2016), docente di psicologia all’Università della Pennsylvania, ci dice che stiamo bene quando ci sentiamo bene e quando “funzioniamo” bene. Quando siamo in uno stato che definisce di flourishing, fioritura. Secondo la sua visione, il flourishing è una condizione in cui le persone non solo sperimentano benessere emotivo e psicologico, ma si impegnano attivamente per vivere una vita piena di significato e realizzazione. Il flourishing si raggiunge quando le persone stanno bene dal punto di vista fisico, mentale e psicologico, avendo la possibilità di crescere e di realizzare il loro pieno potenziale.

Così anche nel concetto di flourishing ritroviamo l’idea che il fiorire delle persone rappresenti la realizzazione della loro unicità e della loro potenzialità.

Per la psicologia positiva, che focalizza il proprio interesse sulle potenzialità dell’individuo, sul suo benessere, il flourishing rappresenta la piena espressione delle risorse personali che ogni individuo possiede, seppure non sempre con consapevolezza.

È chiaro che si tratta di un concetto complesso che chiama in causa diversi fattori: come una pianta ha in sé la possibilità della fioritura, ma non è detto che poi fiorisca, così vale per le persone. La possibilità di fiorire dipende dall’individuo e dall’ecosistema, cioè dalle interrelazioni e interdipendenze tra gli individui e le altre parti del sistema stesso.

Se pensiamo alle persone nelle organizzazioni, è evidente che abbiamo bisogno di una visione sistemica per poter davvero promuovere il flourishing, perché il poter “funzionare” in modo ottimale vede almeno tre stakeholder coinvolti: l’individuo, il contesto (l’organizzazione) e i/le manager.

In questo articolo approfondiamo le dimensioni del flourishing a livello personale e l’importanza di queste dimensioni per la vita delle persone e il benessere dell’organizzazione.

Perché dovremmo occuparci del nostro flourishing? Intuitivamente è ovvio, perché stare bene è meglio che stare male. Ma la psicologia positiva si è ben presto resa conto che le persone che sono in una dimensione di flourishing, di benessere, non solo stanno meglio psicologicamente, ma anche mentalmente e fisicamente.

DALLA FELICITÀ AL FLOURISHING

Il modello che per noi meglio spiega e descrive il concetto di flourishing è il PERMA (Seligman, 2010), in quanto:

  • Trova un equilibrio tra visione edonica ed eudaimonica, considerando il benessere come un costrutto che vede in causa entrambe le dimensioni
  • Garantisce rigore scientifico e concretezza, dando la possibilità di strutturare in maniera organizzata non solo la riflessione su cosa sia il flourishing, ma anche la messa in atto di soluzioni concrete
  • Si sposa con le logiche del mondo del business perché mette in risalto la necessità di raggiungere obiettivi e di crescere come presupposto per la fioritura (accomplishment)

A questi cinque fattori si aggiunge, in coerenza con l’approccio di Emiliya Zhivotovskaya e Louis Alloro, una sesta dimensione, la Vitality (vedi figura).

Figura: Il modello PERMA-V
Fonte: MIDA

POSITIVE EMOTIONS (EMOZIONI POSITIVE)

Il primo elemento del modello fa riferimento alla capacità di sperimentare emozioni positive, come gioia, gratitudine, serenità, interesse, speranza, amore: nutrire e coltivare queste emozioni può migliorare la qualità della vita e aumentare la felicità a lungo termine.

Secondo Barbara Fredrickson, le emozioni positive possono ampliare e migliorare le abilità sociali, cognitive e comportamentali. Tali abilità sono durature e favoriscono l’incremento di risorse personali, che possono essere utilizzate in svariati contesti e in altri stati emotivi futuri (Fredrickson, 2004).

Le emozioni positive hanno quindi un potere trasformativo, preparando l’individuo ad affrontare eventuali momenti difficili successivi.

Dal punto di vista neurobiologico, le emozioni positive stimolano la produzione di dopamina e serotonina, sostanze chimiche che non solo ci fanno stare bene, ma stimolano anche i nostri processi di apprendimento.

È infatti dimostrato che allenare e coltivare le emozioni positive:

  1. Rafforza il sistema immunitario, ha effetti benefici sulla salute e sull’energia, innalzando le nostre aspettative di vita. Si vedano ad esempio le ricerche sulle correlazioni tra emozioni positive e longevità (Danner et al., 2001)
  2. Ha effetti positivi sulla performance: le emozioni positive stimolano la collaborazione, il pensiero creativo, il problem solving e le capacità analitiche
  3. Migliora le competenze relazionali: una persona che ha vissuto emozioni piacevoli nelle interazioni sociali è maggiormente predisposta a fornire aiuto (Fredrickson, 2004); l’aiuto genera a sua volta gratitudine e quindi permette di far fiorire delle relazioni significative e profonde
  4. Contribuisce allo sviluppo della resilienza, perché se da un lato ampliano la gamma dei nostri comportamenti, mettendoci così nella condizione di avere un più ampio bagaglio di risposte, dall’altro producono il cosiddetto undoing effect (Fredrickson et al., 2000), quell’effetto per cui vivere esperienze piacevoli, per quanto piccole, in situazioni di difficoltà, facilita la regolazione delle emozioni negative (spiacevoli) e dello stress, aiutando così a ridurre il fuoco dell’attenzione sulle emozioni negative, reintegrando le risorse esaurite dallo stress attraverso un ripristino della tranquillità cardiovascolare.

L’obiettivo non è quello di eliminare le emozioni spiacevoli, che hanno una funzione fondamentale per la nostra vita e il nostro benessere, quanto piuttosto diventare più consapevoli dei momenti positivi che viviamo (per quanto piccoli), ricercando attivamente la possibilità di aumentare il numero delle esperienze positive.

Questo vale anche per gli ambienti organizzativi: alcune tra le emozioni positive, come gratitudine, ispirazione, orgoglio, se più presenti nelle nostre organizzazioni potrebbero incidere maggiormente sul wellbeing delle persone, sulle loro performance cognitive e sulla motivazione.

È sempre Fredrickson (2000) ad evidenziare come ci sia una correlazione tra quantità di emozioni negative, emozioni positive e successo. Le aziende in cui c’è un rapporto tra frasi positive, e dunque emozioni positive correlate, e frasi negative superiore a 2,91:1 sono quelle più floride. Dove prevalgono invece rabbia, paura di sbagliare e invidia per il successo altrui, in cui vergogna e senso di colpa sono usate come leve comportamentali:

  • è più alto il rischio di chiusura, resistenza al cambiamento, difficoltà a collaborare
  • aumentano demotivazione, stress e malattia, burnout

Creare le condizioni attraverso la propria azione per la fioritura di emozioni positive in azienda costituisce, quindi, un passo fondamentale verso contesti organizzativi sani e generativi.

ENGAGEMENT (COINVOLGIMENTO)

La seconda dimensione del modello fa riferimento all’Engagement, inteso come lo stato di flow: la condizione che raggiungiamo quando siamo totalmente assorbiti in un’azione e le nostre capacità si ampliano.

“I momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi, ricettivi, rilassanti… i momenti migliori di solito si verificano se il corpo e la mente sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile per cui ne valga la pena.”

Così scriveva Mihaly Csikszentmihalyi (2013), riconosciuto come il padre del concetto di Flow, parlando per la prima volta della possibilità e capacità della persona di sperimentare una condizione di concentrazione profonda in cui diventiamo tutt’uno con il compito che stiamo svolgendo, mettendo in campo le nostre capacità al massimo delle nostre possibilità: i rumori cessano, il tempo si dilata, creatività e produttività aumentano. Quando concludiamo, ci sentiamo vivi e soddisfatti, anche se stanchi.

Sperimentare uno stato di flow dipende dal raggiungimento di un equilibrio tra le sfide (challenge) del contesto e le personali capacità di agire e intervenire sull’ambiente.

Se la persona percepisce le sfide come superiori alle proprie capacità, diventerà più vigile e ansiosa; se invece le considera inferiori, passerà da uno stato di rilassamento a uno di noia. Tuttavia, quando l’individuo avverte un equilibrio tra il livello di sfida e le proprie abilità, vivrà la “flow experience” o esperienza ottimale, un flusso dinamico di energia mentale che mobilizza risorse e potenzialità latenti dell’individuo (vedi figura).

Figura: L’esperienza di Flow
Fonte: Csikszentmihalyi, 2013

Ma quali sono i fattori che costituiscono la flow experience? Csikszentmihalyi e altri autori (2002) hanno delineato le caratteristiche fondamentali che facilitano l’accesso alla piena esperienza di flow, quali:

  1. Equilibrio tra sfida presentata e abilità della persona
  2. Integrazione tra azione e consapevolezza: l’esperienza è immersiva e la persona percepisce armonia tra ciò che sta facendo e ciò che sta vivendo
  3. Senso di controllo sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze
  4. Obiettivi prossimi chiari e feedback immediato, che permettono un processo continuo e fluido
  5. Attenzione e concentrazione totale sull’attività in corso
  6. Perdita della coscienza di sé, la persona si percepisce come un tutt’uno con l’attività
  7. Distorsione della percezione temporale normale, in cui il tempo sembra passare più velocemente
  8. Gratificazione intrinseca legata all’esperienza stessa e un profondo senso di piacere (Deci, 1975), tanto che spesso l’obiettivo finale diventa solo un pretesto per iniziare il compito

Queste caratteristiche creano un ambiente favorevole per l’ingresso in uno stato di flow. È allora che la persona opera al massimo delle sue potenzialità.

RELATIONSHIPS (RELAZIONI)

La terza componente del modello fa riferimento alle relazioni significative e positive con gli altri, fondamentali per il benessere. Se ci pensate, buona parte delle nostre esperienze positive si sono verificate in compagnia. L’essere umano, diceva già Aristotele, è un animale sociale.

È nelle relazioni con gli altri che soddisfiamo il bisogno di sopravvivenza individuale, rispondendo al contempo all’istinto primordiale di prosecuzione della specie. I nostri antenati avevano infatti più probabilità di sopravvivere se organizzati in gruppi e comunità, favorendo quindi la propria sopravvivenza e la continuità del gruppo nel tempo.

Nelle relazioni con gli altri nutriamo il nostro bisogno di appartenere, di essere accolti, amati, riconosciuti.

La connessione con gli altri, l’appartenenza a comunità solide e relazioni interpersonali appaganti contribuiscono al senso di felicità e realizzazione, e questo contribuisce a farci sentire meglio e quindi a farci stare meglio, mentalmente, fisicamente e psicologicamente.

Non solo. Ricerche neuroscientifiche (Zak, 2017) dimostrano che, quando viviamo una relazione positiva con qualcuno, il nostro cervello incrementa la produzione di ossitocina: un «antistress naturale» che stimola il comportamento cooperativo, la creazione di fiducia, andando ad arginare l’azione di un altro ormone, il testosterone, che ci spinge verso comportamenti più individualistici e aggressivi.

Dato che l’innovazione – fattore cruciale per il futuro di un’organizzazione – è un processo essenzialmente cooperativo, un luogo di lavoro che promuove relazioni sociali positive aumenta non solo il benessere dei propri dipendenti, ma contribuisce concretamente anche alla propria capacità di rinnovarsi e restare rilevante sul mercato.

MEANING (SIGNIFICATO)

Perché facciamo quello che facciamo? Qual è il motivo profondo che ci spinge a svolgere azioni, costruire idee e pensieri, essere le persone che siamo?

Le risposte a queste domande contribuiscono a espandere la riflessione alla quarta dimensione del modello di Seligman: il significato, che corrisponde al servire e far parte di qualcosa che consideriamo più grande di noi stessi (Seligman, 2010).

Trovare un significato più profondo nel proprio lavoro, nelle relazioni e nell’impegno personale contribuisce al senso di realizzazione e felicità.

Quando tale significato è presente e riusciamo a percepire chiaramente il senso delle nostre azioni, non solo raggiungiamo livelli più alti e duraturi di benessere, ma siamo anche maggiormente predisposti ad impegnarci.

Quando lavoriamo per qualcosa che ha grande valore per noi, ci sentiamo più vivi, coraggiosi ed energici. La ricompensa economica passa in secondo piano, la spinta alla proattività è interna e per questo più forte.

Ovviamente ciascuno di noi è mosso da leve motivazionali diverse, ma la ricerca dimostra come, tra le diverse leve, la più potente sia la motivazione intrinseca, collegata a performance elevate e sostenibili nel lungo periodo (Deci et al., 1996). Persone che agiscono sotto la spinta della motivazione intrinseca hanno la capacità di attribuire un significato più ampio alle proprie attività.

Tuttavia, nelle organizzazioni, lo scopo e il senso più ampio sottostante al lavoro sembrano essere il grande assente in molti ruoli, soprattutto quando caratterizzati da elevati livelli di standardizzazione e ripetitività delle azioni. In questi casi l’unico scopo diventa il completamento di una serie di task, connessi al funzionamento del processo stesso.

Aiutare le persone a scoprire o costruire un senso e uno scopo più ampio del proprio lavoro, attingendo eventualmente anche a tecniche quali il job crafting, è la strada maestra per accendere la motivazione intrinseca delle persone e alimentare uno stato di pienezza e ingaggio, capace anche di ridurre la percezione di frustrazione e fatica.

ACCOMPLISHMENT (REALIZZAZIONE)

L’assenza di obiettivi non fa stare bene. Non avere chiaro cosa ci si aspetta da noi disorienta, non poter contribuire alla costruzione di un obiettivo condiviso demoralizza, non avere obiettivi personali toglie energia. Alla domanda “Perché dovremmo migliorare? Perché dovremmo impegnarci in una nuova sfida?” la risposta più autentica è che ciò genera una profonda soddisfazione e contribuisce a renderci felici.

È infatti nella natura umana la spinta a non accontentarsi, a volersi migliorare e realizzare le personali ambizioni.


Il lavoro è il campo da gioco in cui poter esprimere queste ambizioni, è il contesto in cui le azioni spesso sono orientate al perseguimento di obiettivi e si ha la possibilità di godere dei propri successi. In quest’ottica appare evidente come wellbeing e performance siano connessi e viaggino insieme: un’azienda può, quindi, migliorare la propria performance migliorando il benessere delle persone al suo interno.

È proprio qui che trovano spazio alcune utili pratiche che stimolano accomplishment: autodefinire obiettivi ambiziosi e chiari, coinvolgendo la persona in prima persona nel processo; garantire un update sui risultati (del singolo e dell’azienda); facilitare la crescita di competenze e nuove skill, sia tramite formazione che progetti.

VITALITY (VITALITÀ)

In senso fisico, il concetto di vitalità si riferisce al sentirsi sani ed energici. Da un punto di vista psicologico, lo stato di vitalità ha a che fare con il livello di energia, vigore e salute con cui le persone agiscono.

È una dimensione trasversale alle altre, in quanto influenza il nostro modo di stare in relazione, di concentrarci, di perseverare nel raggiungimento di obiettivi sfidanti, di provare emozioni positive.

La vitalità influenza la nostra percezione generale di benessere. L’espressione “mens sana in corpore sano” viene utilizzata proprio per sottolineare l’importanza del benessere fisico per la nostra salute e il nostro benessere mentale.

La stessa capacità di resilienza, che ci permette di resistere e continuare a perseverare adattandoci alle avversità, risulta collegata più alla resistenza (endurance) e all’energia, intese appunto come vitality.

Questo significa essere consapevoli che, per mantenere o recuperare vitalità, occorre prendersi cura di sé, con un’alimentazione sana, muovendosi e occupandosi della qualità del nostro sonno, per esempio.

La sfida in questo caso è legata a cosa può fare l’azienda per favorire l’adozione di comportamenti che siano sani, da un punto di vista fisico e mentale, chiedendosi al contempo cosa può e deve fare per offrire un ambiente di lavoro coerente, capace di salvaguardare e promuovere la vitalità.

“Una persona vitale è qualcuno la cui vitalità e il cui spirito si esprimono non solo nella produttività e nell’attività personale, ma anche nell’energia contagiosa di coloro con cui entra in contatto.”

Peterson & Seligman, 2004

UNA CHIAMATA ALL’AZIONE

Ci piace credere nel valore dell’essere umano in una logica di sostenibilità. È tempo di agire per favorire il benessere e la fioritura delle persone, migliorando così il mondo e chi vi abita.

Questo movimento è responsabilità di tutti e tutte e coinvolge sempre di più le organizzazioni che hanno la possibilità di far fiorire le persone e così di aumentare le probabilità di fiorire a loro volta. Secondo questa visione ecologica, quello che possiamo fare come individui è:

  • Diventare più consapevoli di come stiamo, quali sono le nostre abitudini di pensiero, quali pratiche quotidiane mettiamo in atto che ci avvicinano o ci allontanano dal nostro benessere
  • Decidere di farci carico del nostro benessere, assumendo la prospettiva che sicuramente la nostra felicità dipende in parte da circostanze esterne e dal nostro patrimonio genetico, ma in buona parte dipende da noi, da ciò che facciamo e da come pensiamo. È su questo che abbiamo potere
  • Imparare a coltivare il nostro benessere e il nostro flourishing, con impegno, costanza, focalizzazione, in un percorso sicuramente a volte duro, ma che ripaga e fa stare bene. Non si tratta di eliminare le esperienze negative, la fatica, il dolore, ma di imparare a evitarle quando inutili e a gestirle quando invece sono utili al raggiungimento di un obiettivo importante per noi oppure inevitabili

Esistono numerose pratiche che possono aiutarci a sviluppare e potenziare le sei dimensioni che abbiamo preso in esame. Abbiamo visto nell’articolo “Strategia di wellbeing aziendale. Il valore del benessere” come le aziende possono promuovere queste dimensioni in ambito organizzativo:

  1. Con progetti di caring, per ridurre il malessere e promuovere lo “stare bene”
  2. Con percorsi dedicati allo sviluppo e al flourishing personale, per promuovere “l’essere bene”, il wellbeing
  3. Ripensando all’organizzazione, secondo una logica che promuova il benessere, chiedendosi concretamente come ripensare a policy, processi ecc.

Nel prossimo articolo, “Manager aspiranti leader. Verso una concezione più sostenibile (ed ecologica) del leader”, approfondiamo come un/una manager possa esercitare una leadership più sostenibile integrando performance e flourishing.