Insights 25 Ottobre 2024

Manager Aspiranti Leader. Verso una concezione più Sostenibile (ed Ecologica) del Leader

Enrico Gambi

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articolo su HBR Italia a cura di Enrico Gambi

Parlare di leadership non è mai semplice, sia per la complessità del tema, sia per la vastità della letteratura degli ultimi 50 anni, che secondo alcune ricerche (Dubrin, 2012) ha portato alla definizione di oltre 30.000 modi diversi di definirla. Tuttavia, non possiamo non chiederci come mai, dopo 50 anni di tentativi di definizione, sviluppo e formazione, continui a essere spesso poco efficace.

I risultati infatti non sembrano così incoraggianti, basti guardare alcuni recenti dati sui livelli di dis-ingaggio, dis-affezione e quiet quitting nelle aziende in Italia e nel mondo (Clifton, 2022).

La nostra proposizione è questa:

Il benessere può e deve essere un fine dell’azione della leadership, diventando l’obiettivo da perseguire insieme alle prestazioni, senza sacrificare nessuno dei due.

Si tratta di un’affermazione forte, che rischia di stridere un po’ con il pensiero dominante nelle organizzazioni che è “alla fine siamo qui per la bottom line”, figlio di un paradigma organizzativo ed economico in cui le persone sono intese come risorse all’interno di un meccanismo il cui scopo è massimizzare i risultati e il valore dell’azionista. Il punto su cui concentrarsi è per noi quello del paradigma, proprio perché influenza inconsapevolmente la leadership.

Thomas Kuhn (2009) intuì per primo che la scienza non si basa solo sui dati, ma è guidata da paradigmi dominanti: un insieme di convinzioni, teorie e pratiche, accettate da una comunità scientifica in un dato momento storico.

Tutto ciò che non rientra nel paradigma dominante, anche se “vero” viene spesso rigettato o non considerato. Ma come esiste un paradigma dominante, continua Kuhn, esiste anche un salto di paradigma, un momento di rivoluzione scientifica in cui un paradigma esistente viene sostituito (non senza difficoltà e resistenze) da uno nuovo, basato su teorie, concetti e convinzioni diverse.

Traslato in un mondo organizzativo, il paradigma dominante che sta guidando leader e persone a leggere, interpretare e agire sulla realtà non sembra essere in grado di spiegare, e quindi rimediare, a queste evidenze di burnout, di dis-affezione, di basso engagement delle persone.

Come affermava già Einstein, “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”, siamo di fronte alla necessità di un salto di paradigma per poter affrontare con logiche nuove i problemi e perseguire la sostenibilità del mondo del lavoro. Un paradigma in cui performance e persone sono interdipendenti, ossia dove ciascuna variabile influenza l’altra in modo reciproco. Perché questo avvenga è necessario un salto nel modo di concepire la leadership.

EVOLUZIONE DEI PARADIGMI DI LEADERSHIP

Nella vasta letteratura della leadership (Bass, 2008) si evidenziano diverse scuole di pensiero (paradigmi) che nel tempo si sono sviluppate, evolute e stratificate. Dalla teoria del Great Man-dei tratti, a quelle contingenti-situazionali, a quelle transazionali e trasformazionali sino ad arrivare alle più recenti di matrice sociale.

Senza entrare in un’analisi delle diverse teorie, qui enfatizziamo l’evoluzione che il concetto di leadership e di leader hanno avuto attraverso questi paradigmi, passando da una visione deterministica e individuale a una più sistemica, interdipendente e contestualizzata.

Nella teoria dei tratti, la leadership è considerata una qualità intrinseca di alcune persone in grado di guidare gli altri, è dunque innata, posseduta solo da alcuni, che li distingue e rende superiori agli altri.

È da qui che nasce la domanda: leader si nasce o si diventa?

La letteratura popolare, le autobiografie di CEO e personaggi pubblici nelle diverse epoche hanno ulteriormente contribuito a costruire un’immagine del leader dotato di alcune qualità “magiche”.

Si tratta di una visione eroica ed elitaria del leader, in risonanza con il paradigma tayloristico del management scientifico (che dichiara la superiorità del manager sul lavoratore) (Taylor, 1911) che, permeando anche l’impianto formativo degli MBA, ha contribuito a creare una cultura dell’aristocrazia manageriale: una casta di business leader più importanti degli altri lavoratori e professionisti, destinati a guidare le aziende (Mintzberg 2005). Molti dei modelli e pratiche HR sono figlie di questo paradigma.

Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che nessuna delle tante caratteristiche distillate è in grado di spiegare e definire in modo esaustivo la leadership efficace, anzi, diverse caratteristiche sono utili in contesti e momenti diversi. Churchill fu un grande leader durante la Seconda Guerra Mondiale, ma smise di esserlo alle successive elezioni politiche in Gran Bretagna al termine del conflitto, dove venne sconfitto. Come mai?

Si inizia lentamente a insinuare il dubbio che forse la leadership non sia un qualcosa in senso assoluto, ma che nasca in funzione del contesto e soprattutto dell’altra componente senza la quale non può esistere: i follower. Pian piano si fa spazio un nuovo paradigma della leadership, non più come qualità del singolo, ma come relazione che nasce dall’interazione tra una persona ed un gruppo in cui è quest’ultimo ad attribuire lo status di “leader” a qualcuno.

La leadership diventa un processo di influenzamento sociale in cui il gruppo riconosce una persona come leader e decide di affidarsi e “combattere” per lui o lei verso il raggiungimento di un obiettivo o fine importante per il gruppo. Si inizia a parlare di leadership e non meno di leader. Questo è un salto di paradigma molto importante, perché sposta l’attenzione e l’importanza dal leader (dominante nelle teorie precedenti) al gruppo.

Si passa, così, da una visione individualistica a una visione interdipendente e sistemica, in cui entrambi i poli si influenzano a vicenda. Il gruppo diventa importante tanto quanto il leader. La relazione leader e follower è molto più equilibrata e simmetrica e meno gerarchica.

Questo conferimento della “dignità” a motivazioni, percezioni, bisogni dei follower è, per noi, il punto centrale per parlare di performance e benessere in modo interdipendente. Solo così il benessere può essere una finalità della leadership.

FACILITARE IL SALTO DI PARADIGMA

La teoria che oggi interpreta questo nuovo paradigma e meglio spiega il funzionamento della leadership all’interno del gruppo è quella della Social Identity (Haslam, Reicher & Platow, 2020), che concepisce la leadership come il potere di influenzamento di un gruppo a impegnarsi volontariamente a raggiungere una serie di obiettivi importanti.

Un potere che non deriva da posizione o caratteristiche specifiche della persona, ma è attribuito dal gruppo a una persona in virtù di alcuni elementi:

  1. Il/la leader è uno/a di noi. Perché una persona possa essere considerata leader, deve essere percepita come una del gruppo. Il/la leader lavora per il gruppo: quando percepiamo che qualcuno sta lavorando per il nostro bene, oltre che per il suo, e porta avanti obiettivi, scopi e valori per noi importanti, siamo più inclini a concedergli il potere di influenzarci di seguire i suoi input e decisioni.
  2. Il/la leader costruisce un’identità sociale. Un gruppo si forma quando sente un’affinità identitaria, un senso del noi comune e condiviso, collegato a uno scopo e importante per ciascuno dei suoi membri. Il leader è colui o colei che meglio riesce a generare questo senso di noi collettivo.
  3. Il/la leader porta avanti e sviluppa l’identità del gruppo nel futuro grazie al raggiungimento di obiettivi, scopi, progetti. La vision è frutto dell’abilità di proiettare nel futuro il gruppo verso uno scopo più alto e importante che fa crescere ed evolvere le persone.

La leadership come influenzamento che genera commitment emerge e si mantiene nella relazione con il gruppo quando si verificano queste tre condizioni. Per coloro che rivestono ruoli di guida di persone, questa nuova visione di leadership interdipendente fa sorgere una domanda molto importante: perché le persone dovrebbero farsi guidare da me?

Se la leadership (potere di influenzamento) è concessa dai follower, ogni responsabile deve chiedersi quanto della sua influenza è originata dalla posizione e quanto dal riconoscimento dei gruppi che guida.

In altre parole: mi seguono perché devono (compliance) o perché lo vogliono (commitment)?

WELL LEADERSHIP: LAVORARE PER IL FLOURISHING DELLE PERSONE

“People don’t care how much you know until they know how much you care”

Così diceva Theodore Roosevelt: alle persone non interessa quanto tu sappia o conosca finché non vedono quanto tu sei interessato/a a loro. Puntare al wellbeing e al flourishing di un gruppo è uno dei modi per passare dalla compliance al commitment e da una leadership “estrattiva” (focalizzata solo sui risultati) a una sostenibile, in cui prestazioni e benessere sono interdipendenti.

Come approfondito nell’articolo “Personal Flourishing. Dal benessere individuale alla performance organizzativa”, il modello che per noi meglio descrive questa concezione di benessere è il modello PERMA (Seligman, 2012).

Well Leadership è un frame di riferimento da noi sviluppato, che partendo dal modello PERMA e integrandolo con altre scoperte della psicologia positiva, delle neuroscienze e delle scienze comportamentali, offre principi e strategie in grado di aiutare manager e aspiranti leader a costruire una leadership più sostenibile e soprattutto riconosciuta (vedi figura).

Figura: Il modello della Well Leadership
Fonte: MIDA

Vediamo in sintesi alcune di queste strategie per le varie dimensioni del modello.

Relazioni: più un/a manager si percepisce come “fuori” dal suo gruppo, esercitando potere in virtù della sua posizione e status, più erode la possibilità di esercitare una vera leadership di influenzamento.

Una prima strada da percorrere è quella di lavorare sulla relazione con il gruppo iniziando a costruire un senso di “noi” come entità.

Il lavoro di squadra è il frutto di un senso di identità condiviso senza il quale non si genera supporto e aiuto reciproco spontaneo. Siamo più inclini ad aiutare chi sentiamo parte del nostro gruppo di riferimento rispetto a un esterno, perché abbiamo qualcosa in comune con lui o lei. Questo porta due benefici molto importanti:

  • Il primo beneficio riguarda il benessere: quando ci sentiamo parte di un gruppo e percepiamo di avere l’appoggio degli altri, il nostro senso di autoefficacia, resilienza e gestione dello stress aumenta, riducendo i livelli di cortisolo (ormone dello stress) e abbassando la pressione sanguigna.
  • Il secondo beneficio è sulle performance: innovazione ed eccellenza sono frutto di un lavoro di squadra e raramente solo del talento del singolo.

Due sono i principali modi per percorrere questa strada delle relazioni: creare sicurezza psicologica e gestire il senso di equità.

  • La sicurezza psicologica: “la convinzione condivisa tra i membri del team che esso sia sicuro per l’assunzione di rischi interpersonali” (Edmonson, 2020), è quella sensazione di tranquillità quando in gruppo, anche in presenza del responsabile, è possibile poter dire la propria in modo trasparente, chiedere aiuto ammettendo errori o responsabilità, confrontarsi apertamente con gli altri. Mettere le persone a proprio agio mentre si affrontano temi delicati o risultati scadenti è la strada maestra per tenere insieme performance e benessere.
  • Equità. È esperienza comune aver provato rabbia, fastidio, insofferenza, tristezza, quando ci siamo sentiti trattati ingiustamente. Il senso di equità (o giustizia) che percepiamo è fortemente correlato con il nostro benessere e l’ingiustizia o iniquità generano comportamenti compensativi che minano le relazioni di cooperazione all’interno di un gruppo e/o facilitano la creazione di sottogruppi in conflitto tra loro.

Il tema dell’equità è un tema molto caldo e polarizzato nelle organizzazioni, dominate da giochi a somma zero e a risorse limitate (promozioni, aumenti, incentivazione, ecc.) all’interno del paradigma della meritocrazia. Un/a leader equo non tratta tutti indistintamente, ma è molto attento a tre cose:

  1. Equità distributiva. L’allocazione delle risorse disponibili deve soddisfare dei criteri di equità per quel gruppo. Per risorsa si intende, oltre che budget e premi, anche il proprio tempo come leader.
  2. Equità procedurale. I criteri di allocazione, le ragioni delle scelte e delle decisioni sono trasparenti, logiche e meritocratiche, finalizzate a un obiettivo e scopo comune chiaro a tutti.
  3. Equità personale. Il leader tratta tutti e tutte con rispetto allo stesso modo, indipendentemente da ruoli, età, seniority, ecc. e soprattutto è attento a dedicare il tempo giusto a tutti e tutte (persone, team, sotto-funzioni).

EMOZIONI POSITIVE

La ricerca (Fredrickson, 2010) dimostra ampiamente come le emozioni positive abbiano la capacità di migliorare le prestazioni cognitive delle persone, la voglia di cooperare con gli altri e la capacità di riprendersi da difficoltà. Lo stesso dicasi per quelle più spiacevoli, che entro un certo limite spingono le persone a prepararsi (paura) e lavorare duramente per superare difficoltà e imprevisti (rabbia).

Ma la relazione tra emozioni e benessere non è così lineare. Un team in cui non c’è spazio per preoccupazione o frustrazione o, viceversa, calma e divertimento, non è un team funzionale. Quello che conta è il rapporto tra emozioni positive e quelle negative, chiamato anche positivity ratio (Fredrickson, 2010), un valore al di sotto del quale le performance di un team peggiorano. Ma al di là della misurazione matematica, il punto centrale è che è nel bilanciamento tra emozioni positive e spiacevoli che si gioca la performance di un team, con un tono generale più positivo che “negativo”.

La sola paura o preoccupazione crea semplicemente compliance (faccio per evitare conseguenze spiacevoli).

La sola speranza o divertimento rischia di portare a poca focalizzazione ed execution; il vero commitment è un misto di entusiasmo, speranza, divertimento, con un po’ di preoccupazione perché l’obiettivo è importante e non così semplice.

Le emozioni sono anche un sistema di comunicazione istintivo: paura, rabbia, gioia, tristezza, sono lette dal cervello in modo istantaneo sul volto e nel linguaggio non verbale.

Di conseguenza, è bene che il/la manager:

  • Si prenda cura di sé e del proprio flourishing, affinché questo stato si trasmetta nei suoi gesti, nelle sue azioni, nei suoi toni e modi al resto del gruppo. D’altronde, una premessa perché un team sviluppi il proprio flourishing è che anche il/la manager sia impegnato in questo viaggio.
  • Diventi consapevole di come si sente e di quale tono emotivo sta generando in un certo momento o periodo nel team. Non deve essere sempre positivo/a perché benessere non vuol dire persone sempre felici. Ma la capacità di leggere il sentire di un gruppo (o anche del singolo) è uno dei modi con cui dimostrare cura, ascolto e interesse, e di rafforzare così la propria leadership agli occhi dei collaboratori.

Vitalità: La vitalità è il livello di energia con cui si affrontano obiettivi, sfide, difficoltà ed è collegato anche al tema emozioni, dato l’impatto che queste ultime possono avere sul nostro stare bene e sulla nostra salute. Livelli eccessivi di emozioni spiacevoli producono ormoni come cortisolo e adrenalina che a lungo andare hanno anche impatti sul fisico, oltre che sulla mente.

Lo stesso dicasi per le emozioni positive che, al contrario, generano ormoni che compensano l’attività di cortisolo e adrenalina, tenendo l’organismo in un equilibrio sano.

Sulla vitalità influisce moltissimo lo stile di vita del singolo (sonno, alimentazione, attività psicofisica), ciascuno di noi ha una forte responsabilità di alimentare il proprio livello energetico al lavoro. Tuttavia, la ricerca di un maggiore bilanciamento vita-lavoro e di “disconnessione” dal lavoro è una delle cose più richieste dalle persone.

Il tema è complesso e senza facili soluzioni ma un/a leader può percorrere questa strada:

  • Facendo attenzione a non generare carichi di lavoro ulteriori, con richieste non essenziali e non invadendo lo spazio e il tempo delle sue persone in orari poco consoni.
  • Difendendo il più possibile il tempo delle persone del suo team da richieste degli “stakeholder”, negoziando quando possibile in prima persona scadenze o output sostenibili.
  • Curando il proprio e altrui livello energetico, dando valore al “recupero” invece di vederlo come mancanza di commitment.
  • Ricordando Nietzsche, “chiunque abbia un perché abbastanza forte, può sopportare qualsiasi come”, lavorare sul senso di scopo e di significato dell’azione del team.

SIGNIFICATO E SCOPO (MEANING)

Senza un team di follower, non può esistere leadership. Ma il team esiste solo se si verificano due condizioni:

  • C’è un “nemico comune” da combattere, per cui ha senso unirsi ad altri.
  • C’è uno scopo e un senso di identità che ci accomuna e ci fa cooperare.

Costruire questo senso o scopo comune è il lavoro principale di un/a leader. Lo scopo fornisce una cornice di senso più alta, dando coerenza e significato ad azioni, attività e progetti, aumenta il senso di ingaggio e motivazione delle persone, rafforza il senso di identità comune.

Richiede ascolto delle diversità ed aspirazioni interne a un gruppo, lettura e comprensione delle sfide all’orizzonte e delle richieste del contesto, e capacità di sintetizzare il tutto in una direzione, o immagine futura.

In contesti organizzativi dominati da razionalità, efficienza, KPI e deadline, in cui il manager è deputato a far produrre e far funzionare la macchina, chi aspira ad essere leader può osare e iniziare a costruire anche un senso più alto per sé e per il suo team. È fondamentale porsi alcune importanti domande:

Chi siamo e chi vogliamo essere?

A chi rendiamo migliore la vita e in che modo?

  • Che cosa ci sta chiedendo il mercato, il contesto, il cliente? Qual è il “mondo migliore” per superare la sfida?
  • Che cos’è importante per me, per ciascuna delle mie persone? Che cosa le renderebbe orgogliose?

Non tutti i lavori hanno lo scopo di salvare la vita a qualcuno, ma il senso non è là fuori. È nello storytelling di ognuno di noi. E il manager aspirante leader può diventare un esempio.

ACCOMPLISHMENT (REALIZZAZIONE)

Il benessere è soprattutto il frutto del flourishing, che comporta sfide, fatiche, senso di crescita e progresso, creatività e innovazione. Ed è quindi proprio nella performance che si possono originare le condizioni anche per un vero benessere del singolo e del team.

Performance e risultati, in azienda, passano attraverso la grande pratica della gestione per obiettivi che, sebbene ampiamente diffusa da tempo nella totalità delle aziende, spesso non genera effetti positivi.

Un framework molto interessante per favorire l’accomplishment del team è quello degli OKR (Doerr, 2019) in quanto basato su alcuni dei principi che stimolano il flourishing, ad esempio:

  • Co-disegnare obiettivi. Il goal setting classico prevede di concordare con il proprio responsabile una serie di obiettivi individuali. Quello che spesso si perde è una dimensione di team e di visione d’insieme (che aiuta a rinforzare il senso di gruppo e creare sinergie e cooperazione, e quindi maggiore benessere).
  • Focalizzarsi su obiettivi, meno su KPI e attività. Realizzare un’attività non vuol dire raggiungere un obiettivo. La leadership passa dalla capacità di aiutare le persone a vedere oltre il KPI, al progetto, all’obiettivo, allo stato desiderato, al “mondo migliore” che si vuole raggiungere.
  • Far sentire i progressi. I picchi più alti di motivazione ed energia al lavoro sono registrati quando le persone sentono di fare un progresso, un miglioramento, anche piccolo. Aiutare persone e team a focalizzarsi ed enfatizzare anche i più piccoli miglioramenti e condividere frequentemente risultati e andamenti contribuisce a mantenere alta l’attenzione e lo stato emotivo.
  • Spingere il bottom up. Abbiamo tutti esperienza di quanto sia diverso in termini di energia e ingaggio lavorare su una nostra proposta o idea piuttosto che impegnarsi su quanto ci viene detto di fare o di svolgere. Pensare di far fare alle persone solo quello che vogliono è utopico, ma stimolarne autonomia e problem solving è la via per una motivazione duratura.

ENGAGEMENT

Le performance eccellenti sono ottenute negli stati di flusso (Csíkszentmihályi, 2021), ovvero quando mente e corpo, assorbiti totalmente in una data azione, entrano in una condizione di concentrazione armonica e la fatica è gestita più produttivamente. Se la qualità della leadership si vede dal livello dei risultati e dal livello di benessere di chi li raggiunge, riuscire a portare collaboratori e team in uno stato di flusso è la strada maestra.

Per riuscirci, oltre a lavorare su scopo e senso di accomplishment, il manager aspirante leader può soprattutto:

  • Aiutare le persone a concentrarsi su quello che è veramente importante, riducendo il più possibile parcellizzazione del lavoro e multitasking.
  • Concentrarsi sui talenti delle persone, cercando di costruire e modellare il loro ruolo affinché possano usarli per la maggior parte del tempo. Sebbene ciascuno di noi possa accrescere le proprie competenze, ognuno di noi possiede anche delle qualità naturali che quando usate ci permettono di entrare nel flusso e performare al top.
  • Aumentare autonomia e ownership: bilanciare direzione e guida con autonomia e delega è una difficile arte, ma il paradigma “una persona sola al comando” in grado di dire sempre agli altri cosa fare è molto rischioso in un mondo che richiede innovazione costante, oltre che contrario alla natura umana. Anche se con gradualità diverse, il bisogno di autonomia nell’impostare, gestire ed organizzare il proprio lavoro è uno dei fattori motivazionali più potenti (Deci, 2018).

VERSO UNA LEADERSHIP SOSTENIBILE

Il mondo delle aziende e del business è in profonda trasformazione ed abbiamo bisogno di nuovi modelli di pensiero con cui affrontare i temi della performance, della sostenibilità e dell’umanità del mondo del lavoro. Se la sfida dei leader di ieri era quella di massimizzare le performance, la sfida di quelli di oggi è integrare performance e benessere, perché senza il secondo, la prima non sarà sostenibile.

Leader non si diventa, né si nasce; si è “proclamati” dai follower quando sentono che vale la pena affidarsi e concedergli/le un potere.

Ne vale la pena quando vedono che il leader si interessa a loro e li porta in un’avventura in cui vogliono partecipare perché saranno persone migliori alla fine del viaggio.

Il wellbeing diventa una finalità della leadership.