DE&I e inclusione sociale: intervista a Capgemini
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Per diffondere in Italia informazioni e best practice sugli interventi DE&I, intervistiamo ogni mese responsabili di grandi aziende che operano nel nostro Paese nell’area Diversity Equity e Inclusion. Qui abbiamo il piacere di parlare con Alessandra Miata, Corporate Social Responsibility Head di Capgemini
IL RUOLO. Ci racconti la scelta di Capgemini di far convogliare la gestione della DE&I in CSR?
La scelta di Capgemini è figlia di una storia. Nella nostra azienda la funzione DE&I e le tematiche annesse sono storicamente nate in seno a HR.
Successivamente, con l’evoluzione del concetto di sostenibilità – un concetto estremamente ampio, anche se spesso si associa solo alla dimensione ambientale – è stato naturale per noi farvi rientrare anche la dimensione sociale.
Essendo Capgemini una società di servizi, di consulenti, nel momento in cui si è trattato di razionalizzare e consolidare la strategia di sostenibilità, nel suo senso più ampio, la DE&I è diventata naturalmente uno dei tre pilastri e come tale è rientrata nello scope della Corporate Social Responsability (CSR).
Aggiungo che spesso, nelle aziende, anche gli aspetti tecnici di sostenibilità ambientale hanno delle funzioni dedicate, e sono spesso funzioni con competenze tecniche. Chiaramente, la struttura CSR non si sostituisce a queste funzioni. Così come sulle tematiche ambientali io continuo a collaborare, ad esempio, con i colleghi tecnici che si occupano della misurazione delle nostre emissioni, esattamente allo stesso modo per la DE&I io collaboro con l’HR che non ha perso assolutamente la sua rilevanza su queste tematiche.
Anzi, credo che questa scelta sia stata, almeno nella nostra realtà organizzativa, estremamente proficua. E lo dico soprattutto perché, venendo dall’HR, e avendo già da tempo un grande interesse per le tematiche di DE&I, so che dentro l’HR la mia capacità di lavorare su aspetti di natura più culturale, esperienziale, etc… sarebbe stata limitata. Non perché non fosse nello scopo della funzione, ma perché aveva tanti altri obiettivi importanti e più, diciamo, “hard” e spesso non c’era il modo di dare spazio ad altri temi.
È un privilegio avere una doppia vista: poter gestire parti “hard” della DE&I, come ad esempio, i KPI, e parti più “soft” come la realizzazione di attività formative trasversali che impattano sul management e sulla revisione dei processi in chiave di inclusione. Ecco queste sono cose che si fanno in partnership con la struttura HR, ma finché ne facevo parte non avevo il tempo materiale di realizzare queste attività. Invece, come CSR mi si è aperto un fantastico mondo, con la possibilità di arrotondare il nostro impatto e il nostro impegno su questi aspetti.
Come ti confronti con le politiche DE&I Global?
Su questo, a mio avviso, agisce un tratto peculiare della cultura aziendale. Siamo un’azienda francese, e nella cultura di questa azienda la Capogruppo non ha mai avuto un ruolo impositivo.
Gli obiettivi strategici vengono definiti dalla Capogruppo, ma c’è sempre un grande spazio di declinazione locale delle varie iniziative, per cui a me non è mai capitato – già come HR, ma neanche come CSR – di avere il problema di avere obiettivi incongruenti con la mia realtà locale, perché il livello su cui opera la capogruppo è di natura strategica non implementativa. E lo spazio di natura implementativa lasciato alle geografie locali è estremamente ampio.
L’altro aspetto che trovo personalmente molto efficace è che esiste un network strutturato di responsabili CSR delle diverse Country e delle diverse tematiche all’interno di CSR, che ha un costante confronto su buone pratiche, sulle azioni da fare insieme, sull’opportunità di replicare in una Country alcune iniziative sviluppate in un’altra.
Questo mi è stato di grandissimo aiuto quando si è trattato di mettere in piedi la funzione CSR che, due anni fa, in Italia, non esisteva. Se avessi dovuto inventarmi da sola tutte le cose che nel corso del 2021 abbiamo realizzato, non ce l’avrei mai fatta, avrei fatto sì e no un terzo di quello che abbiamo realizzato. Tutto questo è stato possibile proprio perché esiste un clima di grande apertura, confronto, scambio all’interno del gruppo. Ho trovato grandissima facilità di accesso ad esperienze di successo di altri paesi e anche una grande disponibilità a supportarmi. Quindi la mia esperienza di congruenza tra quello che arriva dalla Global e quello che si fa localmente è estremamente positiva.
LA SFIDA. Sei da un anno in questa posizione, qual è la sfida strategica che senti?
La sostenibilità – uso questa parola nel suo senso più ampio – a mio avviso ha più di una sfida. Una è certamente anche un’ambizione, ed è quella di permeare di sostenibilità tutte le componenti dell’azienda. Per essere credibili nell’implementare strategie di sostenibilità, anche quindi di DE&I, bisogna essere coerenti.
Qualche giorno fa mi ha fatto riflettere la frase di un conoscente che lavora in tutt’altro settore che mi ha detto “queste aziende fanno iniziative di responsabilità sociale per gli emarginati della società e poi trattano malissimo i loro dipendenti”. È una semplificazione ovviamente, però essere credibili da questo punto di vista è un lavoro estremamente ambizioso. In questo senso intendo che la sostenibilità deve pervadere tutte le componenti dell’azienda. Questa è la grande ambizione delle funzioni CSR.
Per fare questo ci vogliono a mio avviso due componenti, necessarie entrambe: da una parte, un committment del management – cosa non del tutto semplice visto che il management di un’azienda normalmente è committato su obiettivi di tipo quantitativo dove le dimensioni sociali normalmente non ci sono o, se ci sono, sono percepiti come on top; dall’altra parte, il coinvolgimento dei dipendenti.
Il rischio di fare solamente iniziative culturali e di awareness è che non basti: sono cose che vanno fatte certamente ma, secondo me, se si vuole essere credibili bisogna dare la possibilità ai nostri dipendenti di sperimentare cosa vuol dire includere una persona che viene da una cultura diversa o da una storia diversa, o che cosa questo significa veramente nel nostro modo di comportarci, anche nel mondo del lavoro.
Ad esempio, in merito alle molteplici tipologie di diversità che cerchiamo di gestire, la prima domanda che mi fanno è “ma perché ce ne dobbiamo occupare?” “dov’è il problema?”. Quindi anche su cose che possono sembrare scontate, in realtà c’è un lavoro di consapevolezza profonda da fare, che non si affronta solo con i webinar, ma che deve passare per l’esperienza pratica. Per noi, per esempio, il tema del volontariato è un tema chiave: trovare un modo, compatibile con il business, per dare la possibilità alle persone di mettersi in gioco personalmente, nel confrontarsi con realtà che magari non sono la norma della nostra esperienza lavorativa.
C’è anche una terza sfida che vedo sui nostri tavoli e talvolta sembra figlia di un modo antico di interpretare la CSR: è la sfida della visibilità, di come comunicare queste iniziative, fare in modo che il mercato, i clienti, gli investitori siano a conoscenza del committment dell’azienda su questi temi.
Non si tratta di “dare visibilità” all’azienda in senso di Marketing, ma di essere trasparenti sulle cose che si fanno e come si fanno per essere veramente sostenibili.
Capgemini Italia non avrebbe la necessità di mostrare localmente agli analisti finanziari i propri impegni, perché è una responsabilità che sta alla Capogruppo; tuttavia la comunicazione per noi è importante per trasmettere il messaggio che il nostro commitment sulla sostenibilità è reale, non è solo un modo per far parlare di noi che ha dietro poco o niente. Ancora una volta si parla di credibilità.
LA PRIORITÀ. Quale sarà la priorità dei prossimi mesi?
Per noi quest’anno le priorità saranno allineati agli obiettivi di cui parlavo.
Quindi, da una parte, aumentare il numero di opportunità strutturate di volontariato per i colleghi, e dall’altra trovare delle modalità di coinvolgimento del management più efficaci di quelle fatte fino ad ora.
Il nostro Top management, la prima linea, è estremamente disponibile e coinvolta nel tema, ma c’è tutto il tema del coinvolgimento del Middle Management – ne abbiamo parlato anche con le altre aziende partecipanti del Progetto di ricerca che MIDA ha fatto con l’Università Cattolica [Valorizzare le differenze in azienda].
L’obiettivo è fare in modo che i manager trovino delle motivazioni per fare proprie le tematiche di sostenibilità e di DE&I, e per fare questo quello su cui stiamo lavorando è fare delle azioni condivisibili con i clienti.
Al momento, infatti, stiamo lavorando al nostro primo report di sostenibilità locale. Siamo alla prima fase di analisi dei temi-chiave di sostenibilità, e per questo stiamo coinvolgendo vari stakeholders, tra cui clienti, fornitori, partner. Per avviare questo processo di dialogo, ho dovuto coinvolgere diversi dei nostri manager (con gioia!) e devo dire che ha funzionato molto bene.
La Capogruppo ci sta anche aiutando a legare gli obiettivi di sostenibilità, in termini di responsabilità sociale, a obiettivi di business; e qui chiarisco, altrimenti può sorgere un equivoco: noi siamo una multinazionale che lavora per la trasformazione digitale e il nostro obiettivo di business è accompagnare altre aziende a usare tutti i benefici della tecnologia per migliorare la qualità dei servizi/prodotti che offrono ai loro clienti finali.
Il nostro tratto distintivo è un’attenzione speciale all’aspetto umano, alle implicazioni umane dell’uso della tecnologia. Ecco il fatto che il nostro lavoro con i clienti, generi un beneficio dal punto di vista della sostenibilità ambientale è tra i nostri obiettivi, e contempla insieme sia la responsabilità sociale che gli obiettivi di business.
C’è una Community di Ambassador che ti supporta, qual è il loro ruolo e perché è strategico per voi?
Quando è stata costruita la direzione della CSR, non era previsto un team che gerarchicamente dipendesse da me. Ovviamente non avrei potuto realizzare tutte le idee che abbiamo attuato senza un team. Mutuando una buona pratica da altre Country, ho lanciato una call to action a tutti i dipendenti dicendo “cari tutti: l’azienda ha deciso di fare un grande investimento sulle tematiche di sostenibilità e DE&I. Affinché vi sia un forte legame con la realtà, chiunque di voi ha voglia di dedicare un po’ di tempo, le proprie idee, un po’ di spirito critico a supporto del piano che vogliamo costruire è il benvenuto”.
E così sono nati i primi sei gruppi di lavoro di Ambassador: uno sull’inclusione digitale, uno sulla sostenibilità ambientale e sulla DE&I ne abbiamo attivi quattro: genere, orientamento sessuale, persone con disabilità e differenze culturali.
La risposta è stata buona, si sono da subito creati gruppi di lavoro con una governance molto leggera. Abbiamo degli appuntamenti mensili e in questi appuntamenti normalmente l’obiettivo è contribuire a dare idee, proporre iniziative sulle diverse tematiche, oppure fare approfondimenti di contenuto, trovare relazioni/relatori e contenuti di interesse per tutti gli altri colleghi.
In quanto appunto cooperatori, gli Ambassador ricevono in anteprima le indicazioni che arrivano dalla Capogruppo, gli obiettivi strategici, i target; quindi, sono messi a parte dei meccanismi di funzionamento a livello internazionale di quello che accade. Sono volontari, ma sono persone che hanno passione per l’argomento e anche se alle volte alle riunioni non partecipano tutti, abbiamo gruppi teams dove condividiamo registrazioni degli incontri, materiali. È un network che rimane sempre aggiornato.
LA PERSONA. Sei in Capgemini da quasi 20 anni. Com’è stato occupare così tanti ruoli importanti, contribuendo all’evoluzione di azienda e persone?
Il motivo per cui io, come professionista, sono rimasta in Capgemini è, da una parte, questa cultura di grande autonomia che c’è sempre stata a livello locale, sia nell’HR che nelle altre funzioni. Io ho sempre avuto, nei vari ruoli, come HR Director prima e ora in questo nuovo ruolo, la percezione di avere una grande autonomia nel disegnare e far calzare processi, nella realizzazione di iniziative adatte alla nostra realtà specifica.
Non ho mai avuto la sensazione che mi arrivasse il deck di cose da fare con il mandato di applicarlo pedissequamente alla mia realtà. Ho sempre potuto dare un contributo creativo a quello che il gruppo mi chiedeva di fare, oltre alla possibilità di ricoprire tanti ruoli nell’HR e ora di lavorare per qualcosa di diverso, ma per me estremamente risonante con il mio set di interessi e di valori.
C’è una riflessione che vorrei fare su questi quasi ventuno anni in azienda. Noi siamo un business giovane, l’età media dell’azienda è 37-38 anni, più di metà dei dipendenti è millenial e ce ne sono già tanti della generazione Z, proprio perché è nella natura dell’informatica essere un business giovane.
Secondo me, uno degli stereotipi che questo tipo di modelli si porta dietro è, intanto, che i “vecchi” non servono, e ho qualche perplessità su questo. L’altra cosa che spesso ho sentito nei tavoli di valutazione è il pensare che restare tanto a lungo in un’azienda corrisponda a una scelta remissiva, a una mancanza di coraggio di cogliere nuove opportunità.
Credo sia uno stereotipo, non credo che cambiare azienda ogni tot anni o cambiare azienda in assoluto porti necessariamente con sé un valore aggiunto, certamente vedere più realtà aiuta a vedere modelli diversi, però si può fare in vari modi, anche stando nella stessa azienda.
Un’ultima riflessione che vorrei condividere su questo, che per me è stata rilevante in questi venti anni, è che cambiare azienda significa un grande investimento dal punto di vista del tempo, dell’impegno sul lavoro, allora… se insieme ai tuoi obiettivi professionali tu (indipendentemente che tu sia uomo o donna) vuoi avere anche degli obiettivi di vita, ad esempio avere una famiglia, dei figli, avere un minimo di tempo anche per loro, non è detto che ti possa permettere ogni tre anni di cambiare azienda e ricominciare a doverti far vedere, conoscere, valutare.
Restare in una realtà che già ti conosce, nel bene e nel male, è una semplificazione della vita, per me è stato così. Non diamo per scontato che chi non cambia non abbia valore di mercato, può essere un preconcetto rischioso dal un punto di vista della capacità di valorizzare i talenti.