Insights 02 Luglio 2024

Valorizzare la Diversità in azienda. Intervista a Caterina Gozzoli

Shata Diallo

Consulente

Caterina Gozzoli è Professoressa Ordinaria di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, docente di Psicologia Clinica dei gruppi e delle organizzazioni e di Convivenza socio-organizzativa e direttrice scientifica del corso di Alta Formazione “Diversity & Inclusion Makers Executive Program”.

Da molti anni ti occupi di convivenza organizzativa e DE&I nelle aziende. Come stanno evolvendo questi temi dal tuo punto di vista?


Il tema della convivenza è molto antico. Parlare di convivenza significa affrontare una questione che ha sempre fatto parte della nostra quotidianità, ovvero vivere e produrre insieme ad altri. Quando ho iniziato a occuparmene era più una questione di cosa comportasse convivere, dato che è una sfida obbligata, e soprattutto di cosa ci aiutasse a rendere la convivenza con le persone più generativa, migliorando la qualità dei legami e, allo stesso tempo, la produttività organizzativa. Mi sono resa conto che spesso la convivenza non considerava la differenza come un valore, ma tendeva piuttosto all’esclusione.

Una delle prime riflessioni è stata che il buon convivere sembrava legato a una dimensione di omogeneità e somiglianza, portandoci a essere più capaci di stabilire buoni legami e condividere valori, soluzioni, visioni e pratiche. Questo mi ha incuriosito perché, nella mia visione, la convivenza porta immediatamente al tema dell’alterità e della differenza. Tuttavia, questa alterità sembrava molto addomesticata, resa simile, con vantaggi evidenti in termini di funzionalità nelle organizzazioni e nelle società, consentendo rapidità d’azione e condivisione di visioni. Monitorando questa questione, abbiamo osservato che, in alcune situazioni organizzative, si verificavano rotture improvvise, come se qualcosa di celato o non visto esplodesse, generando conflitti distruttivi.

Così abbiamo iniziato a riflettere sulla differenza: era ignorata o non vista? La domanda si è trasformata nel chiedersi se fosse possibile eliminare la differenza, e le risposte sono state varie. In alcuni casi, la differenza veniva assimilata, perdendo la sua caratteristica di rottura e consentendo più ordine e allineamento. Ma di fronte a mercati sempre più imprevedibili e rapidi, questa omogeneità non rappresentava più un valore. In altri casi, la differenza non era assimilata ma soffocata, portando a conflittualità dirompenti o all’espulsione di chi divergeva, con costi organizzativi significativi.

Come avete gestito queste prospettive e vissuti organizzativi a livello di ricerca?


Abbiamo deciso di esplorare quali forme di differenza esistessero nell’organizzazione: una differenza assimilata, una espulsa, e una che, in certe condizioni, potesse generare produttività e innovazione. La nostra ottica si è quindi modificata, osservando il cambiamento di alcune organizzazioni nel considerare il convivere come una sfida, non automaticamente legata alla qualità del legame o alla gestione della differenza, ma richiedente una competenza, uno sguardo, una sensibilità complessiva.

Abbiamo osservato una serie di tendenze che hanno portato a considerare la diversità come un valore intrinseco, sebbene questa visione possa talvolta sembrare superficiale. È indiscutibile che la diversità sia un elemento inevitabile e fondamentale della nostra esistenza, ma affermare che rappresenti automaticamente un valore aggiunto è ingannevole. La diversità assume valore solo quando gestita sotto determinate condizioni, che sono dinamiche e variabili; non diventa automaticamente un vantaggio in ogni contesto, ma può esserlo quando facilita lo scambio e la collaborazione verso obiettivi ben definiti.

Questo cambiamento di prospettiva, dal considerare la diversità come un non-tema a riconoscerla come cruciale, ha stimolato le organizzazioni a riflettere su come integrarla efficacemente. Tuttavia, alcune iniziative, pur nate con buone intenzioni, hanno paradossalmente rafforzato le divisioni interne, categorizzando le persone e potenzialmente rinforzando stereotipi anziché promuovere l’inclusione. In Italia, ad esempio, si è passati da un approccio di quasi totale indifferenza verso la diversità a uno che la esalta, ma spesso attraverso azioni mirate che, se da un lato aumentano la consapevolezza, dall’altro rischiano di isolare e segmentare ulteriormente.

Qual è la sfida delle organizzazioni oggi?


La vera sfida, oggi, è quella di identificare condizioni che permettano alla diversità di diventare un reale motore di innovazione, generando nuove idee, pratiche e approcci. Questo implica superare la visione limitata della diversità come qualcosa da “gestire” attraverso etichette o categorie, per riconoscere invece che ognuno di noi porta una propria unicità su molti livelli: personale, di gruppo e organizzativo.

L’obiettivo non è più semplicemente includere, ma valorizzare ogni individuo nel contesto lavorativo, permettendo a tutti di contribuire con la propria visione e competenza. In questo scenario evolutivo, vedo un impegno crescente, sebbene ancora frammentato, verso la creazione di ambienti lavorativi veramente inclusivi. Questo richiede un approccio che integri la diversità nel nucleo stesso dell’organizzazione, influenzando ogni aspetto della vita aziendale, dal marketing alla responsabilità sociale, dalla gestione delle risorse umane alle decisioni strategiche. La diversità, quindi, non deve essere vista come un accessorio, ma come un elemento fondamentale che arricchisce e complica positivamente le dinamiche organizzative, spingendo verso un cambiamento profondo e costruttivo.

Se dovessi dare un suggerimento a una persona con responsabilità di DE&I in azienda oggi, cosa sconsiglieresti di fare e cosa, invece, consiglieresti?


Sconsiglierei di promuovere la differenza come intrinsecamente positiva, pur riconoscendone la necessità. Invece di lanciare iniziative isolate, come corsi per “donne leader” dimenticando di coinvolgere gli uomini, suggerirei di adottare un approccio che riconosca la complessità della differenza e la necessità di un impegno faticoso da parte di tutti per gestirla.

È fondamentale non rinforzare le stigmatizzazioni di categorie considerate fragili, ma piuttosto lavorare su una comunicazione che valorizzi il contributo di tutti, evitando di segmentare le iniziative in maniera che possano rinforzare involontariamente le differenze. Qualsiasi iniziativa dovrebbe essere parte di una strategia di risorse umane e di management più ampia, non relegata a un angolo legato solo alla comunicazione, al marketing, o alla responsabilità sociale d’impresa.

Perché?


Non è di per sé sbagliato se consideriamo queste funzioni strettamente associate ai processi decisionali. Le problematiche insorgono quando non si procede in maniera processuale, ovvero quando queste funzioni vengono viste come punto d’arrivo e come autonome. Dipende chiaramente dal modo in cui la funzione di marketing è integrata all’interno delle organizzazioni, ma, dal mio punto di vista, purtroppo, la funzione di marketing e comunicazione è spesso qualcosa che si trova al di fuori dei processi decisionali di vertice, il che è un peccato. Non tanto perché non siano adatte lì, ma perché tendono ad essere più distanti dai processi decisionali, anche più di HR, che teoricamente sarebbe più vicino, ma spesso non lo è.

Nell’ultimo anno MIDA e l’Università Cattolica hanno deciso di proseguire il lavoro di ricerca attraverso il “Diversity & Inclusion Makers Executive Program”. A conclusione di questa prima edizione, cosa hai potuto osservare?


L’obiettivo di migliorare la realtà attraverso proposte innovative è sempre sfidante. Abbiamo cercato di ribaltare il paradigma di lettura sulle differenze, una scommessa che continua. Sono soddisfatta perché abbiamo affrontato resistenze e visioni durature, ma abbiamo anche visto che cambiare prospettiva apre molte possibilità. È importante creare una rete di supporto tra i partecipanti per aiutarsi a generare cambiamento, considerando che le organizzazioni, come le persone, hanno difese naturali contro i temi difficili. Questo percorso ha cercato di generare una cultura diversa, non solo attraverso la formazione ma anche come un laboratorio di lavoro e pensiero condiviso.

Questa intervista è un estratto dell’articolo “INCLUSION MAKERS. LA GOVERNANCE DE&I IN ITALIA IN COLLABORAZIONE CON L’UNIVERSITÀ CATTOLICA”, pubblicato nell’inserto PEOPLECOLOGY di Harvard Business Review.