Per offrire alle organizzazioni italiane informazioni utili e best practice sugli interventi DE&I, la nostra tribe Inclusion intervista ogni mese responsabili di grandi aziende che operano in Italia nell’area Diversity, Equity e Inclusion. Oggi abbiamo il piacere di parlare con Francesco Rodighiero, Presidente di Design For All Italia, co-founder dell’Associazione Hackability e vincitore di prestigiosi riconoscimenti, tra cui IF Design Award, Designpreis e Adi Index.
Che cos’è il Design for All? Che obiettivi si pone?
Design for All è il design per la diversità umana e le pari opportunità.
Spesso il design tradizionale progetta per un’astrazione: l’uomo standard. Così facendo penalizza le persone reali, con le loro diversificate abilità, competenze, desideri e aspirazioni.
Design for All Italia promuove una progettazione per l’individuo reale, inclusiva e olistica, che valorizza le specificità di ognuno, coinvolgendo la diversità umana nel processo progettuale.
L’obiettivo massimo è quello più generale del design: migliorare la qualità della vita delle persone attraverso sistemi, tecnologie, interfacce e tutto ciò che è utilizzato dall’uomo.
Il nostro obiettivo è diffondere il più possibile sia l’approccio progettuale, ma soprattutto il modo di pensare che sta alla base, ovvero la capacità di porsi le domande in un’ottica inclusiva. A volte non è importante la risposta, ma il fatto stesso di essersi posti la domanda, che dovrebbe essere la normalità, anche se non sempre è così.
Design for All Italia vuole quindi proporsi come punto di riferimento, luogo di dibattito e incontro per promuovere iniziative e contribuire concretamente al superamento dei conflitti uomo-ambiente attraverso il progetto. Mira a diffondere una sempre maggiore attenzione e sensibilità nei confronti della progettazione inclusiva, a far comprendere le implicazioni sociali e i benefici sulla qualità della vita di tutti, ed evidenziare i vantaggi competitivi ed economici.
Come si pone il Design for All nei confronti degli utenti?
Come si pone il Design for All nei confronti degli utenti?
Nel Design for All non esistono manuali e ci battiamo perché non ci siano regole fisse del “one fits all”.
Coinvolgere gli utenti, ma soprattutto gli stakeholder, è fondamentale per noi perché ci permette di scoprire tante cose, dai bisogni generali a quelli più personali, che poi vanno declinati per rilevare le esigenze alle quali il progetto deve riferirsi.
Chiaramente, l’esperienza progettuale ti permette di sviluppare una certa sensibilità, ma ogni tanto vanno fatte delle indagini perché cambiano i costumi delle persone, le aspettative, le necessità, e questo avviene molto rapidamente, anche in funzione dello sviluppo tecnologico.
Tutti i progetti nascono dalla domanda corretta. Non ha senso progettare qualcosa per una persona che non sente la necessità o, quanto meno, non deve farne un certo utilizzo: è chiaro che l’interesse è il primo punto. Se si è in grado di farsi la domanda corretta, si riesce a sviluppare il progetto in maniera molto innovativa e originale.
Questo processo di Design for All, con verifica costante, analisi dei bisogni, sviluppo di concept fino alla realizzazione del progetto insieme agli utenti, permette di scoprire tantissime cose e realizzare soluzioni di qualità.
Quindi, c’è di più della normativa quando si vuole fare un progetto inclusivo?
Se parliamo con le amministrazioni, spesso ci scontriamo con la questione di prassi, cioè “ho questo problema, come lo risolvo?”, e non sempre la normativa, spesso prescrittiva, è soddisfacente e risolve in modo chiaro un problema, per quanto sia più comodo, per certe dinamiche, avere indicazioni standard.
Secondo noi è meglio comprendere le motivazioni di una soluzione piuttosto che avere una soluzione precostruita. Se io capisco come sono arrivato a una soluzione, è ovvio che mi sarà più semplice trasferirla su un’altra situazione, e questo dipende molto dalle persone e dal contesto in cui mi inserisco, dipende dagli stakeholder. Se realizzo un progetto di unità abitative in una zona dove ci sono tradizioni specifiche, una certa statura media, e certi tipi di abitudini, è chiaro che mi riferirò molto a quel contesto. È inutile progettare unità abitative internazionali se poi ad abitarci saranno i locali.
L’individuazione degli stakeholder, degli utenti, è fondamentale. Tutti tutti non saranno mai.
Dato che non è possibile pensare a un progetto che sia per tutti, si può definire uno spazio “inclusivo”?
Dobbiamo prima definire il termine inclusivo, cioè a cosa ci serve.
Se voglio uno spazio di lavoro inclusivo, devo tenere conto delle dinamiche interne, come partecipare alle riunioni o potermi muovere in autonomia. Il primo gradino è l’autonomia, il secondo è il benessere generale, che mi permette di trovare soluzioni corrette.
Lo spazio di lavoro di uno studio di architettura, probabilmente, per essere inclusivo, sarà diverso da un ufficio di avvocati. Magari saranno simili, ma avranno caratteristiche diverse o qualcosa che li differenzia. Dobbiamo prima di tutto capire quali sono le nostre esigenze e quelle di chi vive lo spazio.
Se un domani volessi assumere persone con problematiche legate all’autismo, dovrò tenere conto di alcuni elementi, e al tempo stesso devo prendere questa decisione con consapevolezza. C’è una legge che dice che, oltre un certo numero di dipendenti, sei tenuto ad assumere un numero di persone considerate categoria protetta, ma l’integrazione nel mondo lavorativo di persone con determinate difficoltà è una questione che la normativa non può risolvere da sola.
La legge può dare una spinta, ma se mi trovo a dover gestire problemi legati all’autismo o persone che perdono il controllo, devo ragionarci sopra, e questo dipende dalla situazione e dall’esigenza specifica.
Tutto ciò che riguarda le abilità mentali è molto complesso, mentre per quelle fisiche ci sono più strumenti e opportunità. C’è però ancora tanto da fare in tutti gli ambiti.
Cos’è il marchio di qualità DfA-quality? Come si può ottenere e quali sono le azioni che avviate quando vi chiedono di valutare se uno spazio è inclusivo?
I nostri marchi si chiamano “marchi di qualità”. Innanzitutto, perché sappiamo che fare un progetto di Design for All è molto complesso e non tutti partono da questa ambizione, e spesso sappiamo che il focus non è interamente Design for All.
L’iter di valutazione che adottiamo è il seguente: ci viene sottoposto un progetto (sia realizzato che su carta) e parte del nostro personale costruisce delle linee guida molto aperte, che vogliono essere un punto di partenza. Dopodiché, ci sono altre persone che fanno una valutazione qualitativa sulla base di queste linee guida e vanno a valutare le soluzioni che sono state adottate. Quindi si creano due biblioteche: una di linee guida volutamente generiche e l’altra di valutazioni qualitative.
Il concetto è sempre lo stesso: non pensiamo che ci sia un sistema, e quindi delle linee guida, che vadano bene per tutti. L’idea è quella di creare una grande biblioteca partendo dalla complessità: ci sono otto miliardi di persone su questo pianeta.
Questi marchi di qualità vengono poi argomentati rilasciando dei documenti. Essendo questo servizio molto complesso, non è gratuito, ma veniamo incontro sui costi in base al richiedente, tenendo sempre a mente che il contesto condiziona la soluzione.
Quindi dipende anche da chi vi propone i progetti, ovvero dalla capacità di riconoscere il valore di rendere il loro luogo di lavoro più adatto al maggior numero di persone.
Sì, perché c’è chi lo fa per allargare il proprio mercato, chi invece vuole proporsi come un’azienda con un mercato eticamente corretto (dato che ormai anche i clienti valutano da dove vieni e cosa fai), chi lo fa per dimostrare che “stiamo lavorando in questa direzione”, e, infine, chi lo fa semplicemente per giustificare il costo di una determinata azione.
Quindi, nell’ottica di un’azienda che vuole, e si sta muovendo, nella direzione di rendere più inclusivo il suo modo di lavorare, compresi i suoi ambienti, può rivolgersi a voi per muoversi verso questa direzione?
Assolutamente. Oltre ai progetti, facciamo anche tanta formazione ed empowerment, e lo facciamo perché è giusto che i ragazzi, a partire dall’università, conoscano questi argomenti, ma non solo loro. Siamo un’associazione composta da soci, tutti professionisti, e abbiamo una buona parte di volontariato e una parte di consulenza. Crediamo che la formazione sia una forma di disseminazione che è molto più efficace degli interventi stessi.