DE&I e linguaggio: parole per generare inclusione (intervista a Vera Gheno)
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Per dare alle aziende italiane informazioni utili a tema DE&I, intervistiamo ogni mese responsabili di grandi aziende, studiosi e esperti. Oggi siamo felici di condividere l’intervista a Vera Gheno.
Sociolinguista, traduttrice dall’ungherese e divulgatrice, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca e per quattro anni con la casa editrice Zanichelli. Ha insegnato come docente a contratto all’Università di Firenze per 18 anni, da settembre 2021 è ricercatrice di tipo A presso la stessa istituzione.
Cosa vuol dire linguaggio inclusivo?
Spesso, quando si parla di linguaggio inclusivo in azienda, si pensa si tratti di utilizzare un linguaggio politicamente corretto, forzatamente corretto, faticoso.
Si pensi ad esempio alle discussioni tra femminile e maschile delle professioni o all’utilizzo dello schwa. Da sociolinguista ed esperta di linguaggio, ci dai una definizione di linguaggio inclusivo e il tuo punto di vista in merito?
Innanzitutto, non lo chiamo linguaggio inclusivo, ma “ampio“, perché “linguaggio inclusivo” non rimuove la differenza tra chi include e chi, privato di qualsiasi agentività, viene incluso. Rispetto alla questione terminologica, seguo il pensiero di Fabrizio Acanfora, studioso della DE&I, che preferisce parlare non di inclusione, ma di “convivenza delle differenze“. Detto questo, il linguaggio ampio è un linguaggio che presta attenzione alle diversità, cercando di farle convivere a partire proprio dalle parole. Parte dal presupposto che chi non viene nominato è meno visibile agli occhi della società. Il linguaggio ampio non si riferisce solo al genere o all’orientamento sessuale, ma a qualsiasi caratteristica umana che può dare adito a una discriminazione: etnia, religione, corpo non conforme, neuroatipicità, censo, disabilità, ecc.
Come generare vera inclusione?
A volte i contesti organizzativi sono più attenti a utilizzare un linguaggio ampio, rispettoso delle differenze, per finalità di Employer Branding. A tuo avviso, in che modo le aziende possono usare le parole per generare anche un impatto sociale di inclusione?
Quando si parla di DE&I, credo sia essenziale tenere conto di un dato poco misurabile con i classici strumenti a disposizione dell’azienda o di chi ne deve analizzare il comportamento: la sincerità degli intenti. Una delle massime conversazionali di H.P. Grice recita per l’appunto “be truthful”, in italiano tradotto proprio “sii sincero”. Perché se un’azione è fatta con intenti seri, che sia interna o esterna all’azienda non cambia la sua rilevanza; mentre se manca la sincerità, qualsiasi sforzo non sarà altro che un esempio di qualcosa-washing, che non potrà che essere vissuto come posticcio. L’impatto sociale di qualsiasi azione in questo campo è quello di spingere le persone a farsi domande che fino a quel momento, magari, non si erano fatte, a tutti i livelli di un’azienda. Tendiamo spesso a sottovalutare il ruolo che una singola persona ricopre nei cambiamenti socioculturali, mentre ci concentriamo sui massimi sistemi. L’impatto sociale del singolo è quello di poter fare da microinfluencer per il suo ambiente, per le persone che ha attorno, agendo da esempio – e magari anche parlando bene di ciò che accade in azienda. Quindi, anche se nell’immediato magari non si vedono grandi cambiamenti, si possono mettere in moto sommovimenti che avranno ripercussioni lente, ma non per questo meno importanti.
Come si supera la paura di sbagliare?
In quelle organizzazioni che sempre più si stanno occupando di DE&I, anche investendo sui comportamenti e le responsabilità individuali delle persone, la richiesta di utilizzare un linguaggio specifico può essere vissuta come un’imposizione e un terreno minato sempre a rischio di errori. Come si può risolvere questa antitesi e superare la paura dell’errore?
Ho sempre delle perplessità quando qualcuno parla di imposizione linguistica. Intanto, nel nostro privato, rimaniamo con l’assoluta libertà di dire quello che ci pare, basta che abbiamo consapevolezza di esserne responsabili.
In un’organizzazione aziendale, dove molte persone che non per forza si vogliono bene sono costrette a stare insieme, a lavorare insieme, o se non altro a frequentarsi, diventa rilevante usare le parole in modo da non ferire il prossimo, pena ricadute negative di ogni tipo. Di solito, si lamenta di non poter dire più nulla chi, nella sua vita, non si è mai accorto dei muri che il linguaggio può erigere, chi non è mai stato chiamato con epiteti offensivi per una sua caratteristica intrinseca (come, per l’appunto, il colore della pelle o l’orientamento sessuale). A queste persone, bisogna mostrare quanto la loro sia una condizione di privilegiate, senza che questo voglia dire avere una colpa.
Il privilegio non è una colpa, almeno finché non ci si rende conto di averlo. Se poi si ritiene di avere una sorta di diritto naturale a continuare a detenere un certo privilegio, beh… lì inizia a esserci colpa, secondo me. Poi ci sono le persone che magari hanno subìto le parole, per esempio in giovane età, ma pensano che siccome per loro alla fine non è un problema, non lo sia nemmeno per le altre. A queste persone vorrei fare notare che danno per scontato che la società debba continuare a funzionare così, con atti di bullismo e nonnismo che sono di stampo patriarcale. Io, invece, ritengo che si possa cambiare.
Per quanto riguarda l’errore, penso che occorra farci pace. Nessuna persona può pensare di sapere come parlare correttamente di qualsiasi diversità. Per questo, bisogna ascoltare, chiedere lumi alle dirette interessate, ma anche accettare di poter sbagliare, almeno le prime volte. Poi, certo, se una volta ti è stato fatto notare che non dovresti usare la “parola con la n” in riferimento a chi ha la pelle più scura della tua, e tu te ne freghi e continui… non è più un errore, ma una precisa volontà. E se a quel punto i tuoi pari ti giudicano negativamente, direi che te la sei cercata.
Il metodo per comprendere la diversità
Le parole non sono mai solo parole, ma sono veri e propri ganci verso mondi di significati, verso visioni differenti della realtà. Nel tuo ultimo libro “le Ragioni del Dubbio” dai uno strumento pratico da applicare per comunicare dando valore alle parole per comprenderci e per comprendere meglio l’altro, il metodo DRS: Dubbio – Riflessione – Silenzio . Ci racconti in cosa consiste? È applicabile nei contesti organizzativi complessi?
Le tre parole chiave sono tre consigli. Il dubbio riguarda la fase di “ingresso”: dubitiamo un po’ di più di quello che sentiamo dire, in primis per non farci manipolare da una comunicazione pubblica che spesso vorrebbe che reagissimo come dei burattini alle sollecitazioni proposte. Occorre dubitare tanto delle proprie competenze, conoscerne i limiti, per esercitare sanamente la pratica del fermarsi a considerare con più attenzione tutto quello che ci arriva addosso, in questo presente così sovraccarico di informazioni di ogni genere.
La riflessione è la parola chiave della fase di “uscita”: darsi il tempo di valutare ciò che si sta per dire o per scrivere, non solo pensando all’effetto che le parole avranno su chi ci legge o ci ascolta, ma di rimbalzo anche su noi che le pronunciamo o le mettiamo per iscritto. Se io offendo una persona o una categoria, contemporaneamente sto contribuendo a formare l’idea che quella persona o quella categoria avranno di me. Non è vero che non c’è il tempo di farlo; il momento di pausa di riflessione ce lo possiamo sempre ricavare, con un po’ di sforzo. Di solito, si tratta di pochissimi minuti.
E poi, il silenzio: la mia regola è che se non sono competente su un argomento, o se non ho niente di intelligente da dire, semplicemente scelgo di tacere. Non c’è bisogno che dica e scriva sempre la mia, se “la mia” non aggiunge nulla a quanto già detto e scritto.
I vantaggi del linguaggio ampio?
Nell’ultimo capitolo del tuo libro scrivi “comunicare è faticoso; e la normalità è che non funzioni”. Essere inclusivi, agire comportamenti inclusivi è faticoso, elemento tra l’altro confermato anche dagli studi sulle Neuroscienze applicate all’Inclusione. Ci piace pensare che questa fatica è anche un investimento, perché trasforma la diversità in opportunità, permettendo di creare contesti in un cui tutte le persone sentono di potersi esprimere per quello che sono, con la conseguenza di essere più felici, produttive e anche generative e innovative. Quale è il vantaggio che possiamo trarre imparando ad utilizzare un linguaggio ampio e a comunicare in modo inclusivo?
ll linguaggio ampio prima di tutto ci posiziona: attraverso le nostre parole rendiamo visibile il nostro sistema valoriale, ciò che pensiamo, i principi sociali e culturali in base ai quali agiamo. Io penso che sia finita l’era dello spadroneggiare di una minima parte della società che pensa di avere diritto di calpestare tutto il resto di essa. Tanto vale impegnare qualche neurone nell’usare meglio le parole… che poi, non mi pare una competenza peregrina, nella società della comunicazione.
Pubblicazioni di Vera Geno
La sua prima monografia è del 2016: “Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)”; del 2017 è “Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network” (entrambi per Franco Cesati Editore). Nel 2018 è stata coautrice di “Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello” (Longanesi). Nel 2019 ha dato alle stampe “Potere alle parole. Perché usarle meglio” (Einaudi), “La tesi di laurea. Ricerca, scrittura e revisione per chiudere in bellezza” (Zanichelli), “Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure” (Newton Compton), “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” (EffeQu); è del 28 aprile 2020 l’ebook per Longanesi “Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento”. Nel 2021 pubblica “Trovare le parole. Abbecedario per una comunicazione consapevole” (con Federico Faloppa, Edizioni Gruppo Abele) e “Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (Einaudi)”. È del maggio 2022 “Chiamami così. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo” (Il Margine).