Insights 08 Giugno 2022

DE&I: sfidare lo standard nel branding e nello storytelling aziendale

Shata Diallo

Consulente

Laura Pieralisi

Managing Partner

Corrado Bottio

Consulente

Elisa Rando

Principal

Per offrire alle aziende italiane informazioni utili e best practice sugli interventi DE&I, intervistiamo ogni mese responsabili di grandi aziende, imprenditori o figure di riferimento che operano nel nostro Paese nell’area Diversity Equity e Inclusion. Oggi siamo felici di avere con noi Giuditta Rossi – Brand Strategist e Co-founder di Bold Stories e di Color Carne, il progetto che vuole cambiare la percezione sul color carne, che non è solo “beige” o “rosa”, come scrivono alcuni vocabolari.

Com’è nato il progetto Color Carne? Raccontate che è partito dall’esperienza personale… Ci dici come siete passate dall’idea all’azione?

L’aneddoto che raccontiamo sul sito è appunto significativo rispetto alla nascita del progetto: io e Cristina Maurelli (ndr: co-fondatrice di Bold Stories e del progetto Color Carne) lavoriamo molto insieme, ci vediamo tutti i giorni e un giorno parlando a proposito di uno shooting che dovevamo fare, Cristina mi dice: “Mah Giuditta, sotto questo vestito ti dovresti proprio mettere un reggiseno color carne”. Ci siamo subito rese conto che questa frase è proprio assurda: color carne… di chi?

Abbiamo pensato che questo potesse essere un insight potente: è un’espressione apparentemente semplice ed innocua, che però nasconde il tema della scarsa rappresentazione delle persone nei prodotti, nei servizi e nelle esperienze.

Inoltre è un tema che è veramente vicino ai nostri valori, non solo personali, ma come Bold Stories. Con i nostri clienti parliamo di autenticità, dell’importanza delle narrazioni, di avere un purpose e un ruolo nella società di occuparsi di quelle tematiche che davvero ti corrispondono e delle dinamiche su cui puoi intervenire. Abbiamo quindi deciso di occuparcene come brand Bold Stories. A quel punto dovevamo capire che strada prendere e abbiamo deciso di fare il nostro mestiere, iniziando quindi con il branding e definendo delle strategie di narrazione.

In particolare, abbiamo progettato questa campagna con un nostro strumento proprietario che è lo Storytelling Thinking® (strumento che mutua le tecniche della narrazione, in particolare cinematografica, per farle diventare degli strumenti attuativi) per trasformarla in una campagna di advocacy.

La forza della campagna è che si basa su un’azione collettiva e partecipata, appunto di advocacy – che ha funzionato. Avete incontrato resistenza e/o haters essendovi fatte portavoce di questi messaggi?

Per rispondere a questa domanda è utile partire dal contesto. L’obiettivo dichiarato di questa nostra campagna è che vogliamo cambiare colore al color carne, dal rosa a tutti i colori dell’umanità. Nel momento in cui abbiamo dovuto scegliere cosa fare abbiamo dovuto capire come si trasforma un’azione in qualcosa che possa avere un impatto. Visto il nostro mestiere, abbiamo identificato due modi: quello del linguaggio e quello delle rappresentazioni visive.

Ci siamo poi trovate di fronte a un bivio su come comunicare il progetto. Da un lato c’era l’azione di rivolta, diffondendo il messaggio che questa è una tematica assolutamente insensata, razzista, sbagliata. Avremmo potuto fare petizioni o scrivere su tutti i siti dei dizionari. Questa è però una strada che non ci racconta, che non ci corrisponde come professioniste e come brand. Siamo quindi andate di nuovo ad intervenire con le nostre modalità, cioè la strategia e la narrazione, con cui abbiamo costruito l’idea della partecipazione, perché eravamo certe che le persone fossero pronte. Abbiamo così creato delle card che le persone potessero condividere e in qualche modo dire di essere d’accordo. Abbiamo poi scritto noi ai dizionari, contattato noi editori e organizzazioni per attuare il cambiamento e solo con il grande potere e il calore della condivisione delle persone finalmente gli editori e i brand hanno capito e stanno capendo che bisogna cambiare le cose.

Gli haters in realtà nella campagna ci sono stati in misura assolutamente irrisoria, non abbiamo avuto dei casi particolarmente eclatanti. Personalmente io ho avuto un problema su uno dei miei profili, ma ho fatto un’escalation a livello istituzionale, senza entrare nel dibattito. E questa penso che sia la chiave: agire a livello istituzionale. La campagna non l’abbiamo fatta come Giuditta Rossi e Cristina Maurelli, ma come Bold Stories, che si prende l’onere e ha la responsabilità, dando poi potere alle persone. Il problema non è che Giuditta Rossi è una persona sensibile e le dispiace non trovare il reggiseno giusto – il problema non è personale, ma sistemico. Perciò la campagna non è una campagna social e questo ci ha in qualche modo tenute fuori da tutta una serie di dinamiche e di dibattiti. Ovviamente ci abbiamo messo la faccia e l’abbiamo fatto con consapevolezza e coscienza perché era rilevante che le socie fondatrici fossero una strategist nera e una storyteller bianca, due donne, una under 35 e una over 50 perché già quello racconta un mondo.

Sul sito riportate esempi da altre parti del mondo in cui ci sono già ad esempio cerotti di colori diversi. La comunicazione inclusiva di questo tipo, soprattutto per i brand, sta assumendo un ruolo sempre più importante. A che punto siamo oggi sul fronte comunicazione inclusiva in Italia?

Ci sono almeno due piani: c’è un piano della comunicazione che nel nostro caso ci fa sempre parlare di narrazione in senso più ampio e un tema invece proprio di branding. Da una parte c’è il brand, i servizi, il prodotto, le esperienze che vengono progettate e attuate e, dall’altro, come quei servizi, attraverso la comunicazione, poi vengono raccontati con più o meno autenticità e in maniera più o meno stereotipata.

Sicuramente in Italia da questo punto di vista c’è ancora tanto lavoro da fare. A livello di prodotti e di servizi non se ne trovano tantissimi; infatti, l’esempio dei cerotti è stato uno di quelli che ha riscosso più curiosità perché effettivamente le persone non ci avevano mai pensato.

Se fino a qualche anno fa forse si poteva pensare ingenuamente di non occuparsi di queste tematiche adesso non è davvero più possibile ed è questo preciso periodo storico il momento migliore per farlo. Quello che diciamo sempre ai nostri clienti è che progettare delle soluzioni più inclusive non riduce le tue possibilità, ma ti apre a opportunità nuove che magari non avevi neanche intravisto.

È provato: tutte le ricerche ci dicono che, anche a livello finanziario, essere inclusivo ti rende più resiliente sul mercato e abbassa i fattori di rischio. È evidente e anche dalle ultime ricerche in Italia: brand che si occupano di tematiche di diversità e inclusione (a parità di segmenti di mercato) fatturano di più. È importante comunicare anche il lato economico della tematica perché se non te ne vuoi occupare per fare del bene, te ne devi occupare per il tuo business perché o ti evolverai in quella direzione o ti estinguerai.

Sempre pensando al confronto internazionale, in alcuni paesi è legale e quindi più “normale” raccogliere informazioni sull’etnia delle persone, ad esempio sul lavoro. Secondo te che ruolo può (o non può) avere parlare di etnia nelle organizzazioni qui in Italia?

Io penso che sia fondamentale parlare di raccolta dati. Come strategist so che i dati sono essenziali perché laddove non c’è un dato non è possibile fare delle strategie di miglioramento, non è possibile identificare degli obiettivi, non è possibile impostare dei KPI e non è possibile capire a che punto siamo del processo migliorativo. Quindi dove non c’è un dato non c’è possibilità di azione.

Inoltre, la letteratura ci dice che dove non c’è un dato bisognerebbe chiedersi perché, visto che molto spesso l’assenza del dato nasconde abilmente la discriminazione. Il non-dato è uno strumento di controllo, per tenere buone alcune persone, per non dare loro accesso. Così come per un dato aggregato non leggibile: un dato non analizzabile è problematico.

È anche vero che sia una normativa che il buon senso ci porta a pensare che ci debba essere una tutela delle persone a cui viene richiesto un dato. Ci deve essere un ambiente sicuro, un ambiente accessibile che ti permette di poter comunicare quel dato e che faccia un modo che quel dato non venga strumentalizzato.

Non ho una soluzione, ma sono sicura che sia il momento di iniziare ad occuparsene, sia a livello legale che aziendale. Altrimenti quando se ne parla a livello istituzionale o con i brand, la risposta che viene utilizzata è che non c’è mercato, non c’è richiesta”. Ma se non ci sono dati, come puoi dire che non c’è mercato per un prodotto?

Quante persone nere ci sono in Italia? Non si sa – ci sono dati sugli stranieri, ma non ci sono dati di una composizione etnica delle persone in Italia. Parlo di etnia, ma in realtà lo stesso vale per tantissime categorie sottorappresentate con dati sensibili che quindi non possono essere raccolti. Tuttavia, il problema è lo stesso: per attuare delle strategie di autenticità e di rappresentazione i dati diventano essenziali sia nella raccolta che nel loro utilizzo e nel modo in cui portano al cambiamento.

In poco tempo avete raggiunto traguardi importanti (cambiamenti sui dizionari, ricerca su Google). Avete altri traguardi in mente? Quali sono i vostri obiettivi ora?

Il progetto Color Carne rientra all’interno della nostra attività di Bold Stories. Quindi come Bold Stories continueremo a lavorare con brand, organizzazioni e istituzioni per il loro branding e strategie di narrazione nell’ottica di rappresentazione.

Vogliamo poi che Color Carne diventi sempre più una piattaforma e uno strumento che ci permetta di mettere in atto un cambiamento concreto.

L’invito, come abbiamo indicato anche sul sito, è quello di diffidare dello standard: dove lo standard non ci corrisponde più, bisogna agire per il cambiamento e vogliamo farlo tra settori diversi.

Infatti, la cosa straordinaria che è successa durante la campagna è che siamo entrate in contatto con settori di ogni tipo, da user design al mondo del design in generale, dalla consulenza di immagine alla moda sostenibile, ma anche tutto il mondo della traduzione.

Vogliamo diventare un collettore di queste esperienze così da progettare con le istituzioni e i brand delle soluzioni più inclusive, delle soluzioni più rappresentative delle persone.

Vogliamo sostanzialmente che brand e persone abbiano gli strumenti per pensare, progettare e costruire un mondo migliore, un mondo più autentico, più inclusivo – che poi è il mondo che si meritano.

Grazie a Giuditta Rossi, Co-founder del progetto Color Carne!